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Camminare

16 mercoledì Dic 2020

Posted by scribastonato in Reveries

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aspirante scrittore, Candy Candy, dicembre, marshmallow, Natale, neve, romanzo, scrittura, snow, writing

Ho camminato sulla neve ghiacciata. Morbida sotto e ricoperta da un lieve strato di gelo, tipo la crema catalana o i marshmallow con la crosticina di cioccolato, quelli che si vendono sulle bancarelle al luna park ma scelgo sempre le cocacole e i coccodrilli gommosi a palate, come nei candy shop inglesi. E finisco per non assaggiarli mai, quei dolcini a forma di talpa. Che bello il gioco delle talpe da acchiappare, la prima volta l’ho visto in vacanza coi miei, a Londra, ero più piccola di Candy alla casa di Pony. Entriamo in questa sala giochi tutta luci e urla meccaniche, il Trocadero nel mio immaginario dà ancora punti a Disneyland; mi passano un grosso martello dall’aria simpatica e comincio a menare come un ferraio sulle povere teste delle talpozze che si alternano fuori dalle buche, lente e più veloci e non sai mai dove spunteranno, colpisco alla rinfusa che Thor spostati e non faccio esattamente una strage, ma rido a fauci così smodate che contagio il circondario, la mia famiglia e anche i giocatori in zona, per lo più ragazzi che si sforzano di rispettare un contegno adolescenziale. Eh, da adolescente non è facile mantenere una reputazione, velarsi di aloni che sappiano di mistero o potenza o perfino di sacralità, coltivare una scorza che fa un po’ Terence di Candy Candy per custodire quel ripieno tenero e spugnoso, che si guasta in un attimo.

Ho camminato poi sul ghiaccio vero e puro, mio figlio che sgusciava furbetto lontano da me come il giorno in cui è nato, anche stavolta senza farsi male, e si divertiva quasi avesse avuto lo slittino sotto il culo. Da bambina andavo spesso sulla neve, perché era inverno perché lo facevano tutti perché i miei si aggregavano perché si respira aria sana perché è spassoso. Non mi sono mai divertita troppo sulla neve, forse perché dopo aver quasi evirato un istruttore passandogli sotto le gambe con gli sci a candela, ho avvertito il pericolo di uno svago che non fa per me. Conservo un buon ricordo delle giornate passate sullo slittino, quando scendevo storta col mio tutone – altro che tecnico! – tinta beige squaraus di mucca e finivo regolarmente a puccetta nel nevischio, sempre fradicia a fine gioco ma che risate anche lì, altri momenti belli che se li avessi immaginati così tenaci nel tempo, forse qualche foto ricordo senza rugne né smorfie a mio papà l’avrei concessa. Risalivo sguaiata con lo slittino a rimorchio per conquistare la discesa prima di mia sorella, i guanti non più un dito per apertura, e ridevo sfrenata per le cadute che io facevo, che lei faceva, che speravamo facessero i nostri genitori. E mi sentivo uno di quei bambini delle storie fredde e lontane, il piccolo eroe di Haarlem che salva i compaesani bloccando per tutta la notte la diga con un dito; Kay e Gerda che, meno imbacuccati di me, si spostano per terre incantevoli  sulle quali la regina delle nevi fa sentire il suo respiro prima ancora di Babbo Natale. E oggi non c’è neve che sia sciabile sempre e per tutti, non è detto che ogni slittino sia cavalcabile e non è facile, forse neanche appetibile, fare un viaggetto a Londra, in Olanda o a Rovaniemi. Ma. Proprio ieri l’Oms ha detto che Babbo Natale è immune dal virus e può circolare, ho pianto di gioia e penso sia una gran cosa per i nostri bambini, costretti a vivere una cattività che neanche i genitori sono propensi a fotografare, meglio non lasciare traccia; una gran cosa per i nostri adolescenti, che avranno qualcosa in più da condividere e confutare con gli amici virtuali, virtuali come Babbo Natale; e una gran cosa per noi con più anni in faccia, noi bisognosi di qualcuno che, pur relegato in un cantuccio segreto, in qualche modo ci riporti a sperare.

Ho anche camminato sulla fanghiglia fredda, quel bianco sporco accumulato a bordo strada che a volte occupa i posti auto buoni, che fa pezzati i campi lungo i tratti, e sporca le scarpe delle signore che si ostinano a lucidarle; quella poltiglia zozza e puzzolente, che spinge a centro corsia le biciclette, e illude i giovani che sì giocheranno ancora, regala ai pensionati pretesti di mugugno e sfida i cani a tingerla di giallo, che allunga il percorso di chi già ha fretta, e ci ricorda che l’inverno è tanto lungo, dobbiamo continuare a camminare.

Scritto da Scribastonato il 16/12/2020

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Quasi sempre

27 venerdì Nov 2020

Posted by scribastonato in writing

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aspirante scrittore, musica, poesia, racconti, romanzo, saiyuki, scrivere, son goku, writing

Ho letto un post che mi ha toccato il fondo,

un thread audace e senza freni intorno,

metteva il cosa, di per sé già ardito,

in una forma che non regge filtri.

Ricordo il modo in cui scrivevo un tempo,

cui mi abbandono s’entra in me il sonoro,

musa potente, musica m’assorbe,

mi sbrana l’anima e si risputa fuori.

Ho così il pezzo, il brano o il testo pronto,

ma perdo spigoli del mio equilibrio dentro.

Sia festa prodiga di luci e sguardi liberi,

se canta il diavolo finisce a stupro e vomito.

L’amore tenero, sessuato o forse impavido,

si scopre torbido, quando a calare è il ritmo.

Per questo spesso mi tengo alla larga dalla musica, da certa musica che risveglia la sintassi peggiore di me. Ma non è solo una questione di forma. A volte a spaventarmi è il viaggio che mi aspetta, il posto che visiterò per scrivere, il cammino da percorrere.

Finché uno entra in casa propria, magari nell’appartamento in cui abitava felice da piccolo, è un conto. Ma affrontare spauracchi di un passato che genera bestioni su bestioni richiede coraggio. E la musica non sempre viaggia dalla parte dell’eroe, non sai in anticipo quali ricordi o esperienze amplificherà, potenzia ma ha effetti collaterali che uccidono.

Ci sono epoche che fanno paura e posti che feriscono, non serve musica ad amplificare. Il kinderheim dove trascorrevo l’infanzia estiva, certe serate a casa dei miei, il cimitero delle ampolle umane dove Astolfo cercherebbe di nuovo il senno altrui.

Per scrivere bisogna osare, penetrare certi edifici, esplorarli, allontanare mani e braccia da sé per frugare ciò che non si vorrebbe neppure sfiorare.

La mattina, quando esco, qualcuno mi chiede:

– Dove vai oggi?

Nell’appartamento di mio nonno, al parco del Valentino, nella biblioteca della vecchia scuola, al castello di Fenis, a lezione dal prof di fisica del liceo, a trovare il parroco di F., nella casa del boia, la risposta cambia a seconda di quel che voglio immaginare.

Prendo l’auto, accompagno chi va a scuola e mi dirigo verso l’ufficetto che mi aspetta. So quasi sempre cosa scriverò quel giorno, soprattutto se mi sto dedicando a una storia lunga. A volte ascolto una canzone preparatoria, qualcosa che porti le emozioni dove devono andare senza domarmi l’anima. Spengo la musica – non interrompo mai un pezzo, – pago il parcheggio se non c’è gratuito, lascio il tagliandino sul cruscotto, apro il portone dalla serratura difettosa e mi ritrovo nel loft zitto e in penombra. Sveglio luci, computer, macchinetta del caffè,  sposto sedie, prendo penne fogli dizionari appunti e comincio. Entro dove so, i miei occhi guardano intorno ma non ho solo un visore a trecentossessantagradi, anche le mie braccia sono lì, le mie gambe, io stessa sono presente. E vedo quello che è successo, spesso non proprio come è successo, e sto bene, sto male, vorrei ridere piangere scappare ma resto lì, a osservare quelle scene che presto potrò raccontare. Perché senza musica posso anche tornare indietro.

Per anni la mia scrittura non ha avuto filtri, è stata incondizionata e in balìa di quel lato selvaggio, notturno, famelico e cannibale che spaventa tanto, prima me e poi tutti gli altri. Mi svegliavo la notte in sovraccarico di emozioni, sono piena di quei testi febbricitanti. Poi ho spento la musica per una decade. Quando l’ho riaccesa avevo addosso come un sigillo invisibile, un piccolo dispositivo che controllo a mio piacere con una certa facilità. E la mia scrittura si è fatta misurata. Per qualcuno è anche troppo controllata, lo sforzo traspare.

Vivo lo stesso, sento, immagino, soffro e scrivo, ma respiro la notte anche quando non dormo. Ogni tanto devo sciogliere il sigillo, decido io.

Ho salvato me a discapito della scrittura. Ho rinunciato a distruggermi, a diventare musica, a carezzare la follia, a ingollare eccessi, anche se il mio spirito consumato si sente ormai vecchio. So che il mio demone feroce resta in agguato, però ho scelto di darmi tregua.

La mia scrittura non diventerà mai quella che sarebbe stata se mi fossi immolata alla creatività, ma meglio non rischiare: a volte la natura si beffa di noi, instilla in un vago scribacchino l’urgenza del Sommo Vate.

Leggo i quaderni passati, erano più forti; e non è per l’età o lo scorrere del tempo, a sedare è proprio quel sigillo che fatico sempre meno a sopportare, purtroppo.

Ripenso a un manga (e successivo anime) di cui ho curato l’edizione italiana per Dynit, Saiyuki di Kazuya Minekura. Basato sul romanzo cinese Viaggio in Occidente – ispirato alla leggenda dello scimmiotto di pietra Sun Wukong (si pensi a Dragonball, al più recente The new legends of Monkey di Netflix e ai vari adattamenti per videogiochi) – il fumetto parla del viaggio verso ovest compiuto da quattro personaggi (meravigliosi!) per cercare i sacri sutra che serviranno a fermare la resurrezione del re dei demoni.

Tra questi viaggiatori c’è anche Son Goku, il più giovane del gruppo, la trasfigurazione dello scimmiotto immortale rimasto imprigionato per cinquecento anni sul monte Gogyo (il monte dei Cinque Elementi) e poi liberato. Son Goku porta sul capo un diadema, un dispositivo di controllo, e quando lo perde si trasforma nel Seiten Taisei, “il grande santo pari al cielo”, una creatura invincibile e animalesca che libera i suoi poteri demoniaci perdendo il controllo di se stesso.

Ecco, la musica mi trasforma nel Seiten Taisei.

E quando il grigio si spiccica dalla pianura e la foschia evapora, lontana la cima del Monviso si fa inarrivabile, una montagna sacra spezzata dalle nubi, la tana di creature potenti, divinità assorte e demoni rabbiosi, e magari dello stesso Goku.

Ho la sensazione che se togliessi il sigillo, l’umanità mi relegherebbe lassù per cinquecento anni e oltre, e nella notte sarebbe terribile convivere coi miei mostri, più spaventosi dei lupi che popolano queste zone.

Ma per fortuna controllo la musica e domino la scrittura. Quasi sempre.

Scritto da Scribastonato il 27/11/2020

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Corrispondenze rap

09 lunedì Nov 2020

Posted by scribastonato in writing

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aspirante scrittore, cartoline, lettere, libraio, libreria, lotus flower, music, racconto, RHCP, romanzo, writer

There must be something

 in the way I feel 

that she don’t want me to feel…

Così venti e più anni fa i Red Hot Chili Peppers attaccavano la loro I could have lied. Li ascoltavo in loop, quel tardo pomeriggio di autostop tra Bolsena e Roma station. Sulla decapottabile di un bordò parecchio losco i due arabi cappuccio e gioiellazzi, uno alla guida col sigarillo spento e l’altro a grattarsi il piede in infradito, mi volgevano domande dal look sincero. Credo provassero pena.

La musica amplificava il male che mi picchiava dentro: un amore precipitato in fretta, i se avessi fatto o se fossi stata e da domani e mai più, e i due arabi rap che aggiungevano beat al mio mesto freestyle.

Non sono cambiata molto da allora, continuo a fare e mi ostino a essere, forse perché – per dirla alla RHCP – il mio volto riflette sempre il vero. Purtroppo.

Tre giorni a Viterbo, bed & breakfast a ridosso del cerchio di mura. Lotus flower, fiore antistress di metallo e perline sul comò della stanza che mi ospita. Riconosco il giochetto indiano, lo vendevo nel mio peregrinare giovanile, riproduce le forme dei pianeti, mi manteneva in permanent vacation per le vie spensierate d’Europa.

Le notti di freddo e stelle sarebbero finite quella volta a Bolsena, una rottura assecondata dai miei amici arabi rap. Dioniso che irrompe come allora per stravolgere un presente dall’aria più mite, accende una danza odierna che straccia i freni, i blocchi e i divieti cui mi sforzo di aderire.  

Azzanno le recinzioni del coprifuoco, gengive sanguinano tra il ferro incorrotto, i denti vacillano e la lingua è sbrandellata ma continuo a masticare, a colare, a lacrimare senza requie, perfino quando le guance sono squarciate e l’osso dubita di reggere.

Mastico anima e smanio libertà, certi ricordi generano fiumane. Ma la libertà stavolta può portare morte, non si ragiona col morbo oltre la rete.

Gli Einstürzende Neubauten urlano, martellano, si fanno propulsori.

No, non sono più così. Le mani sulla rete cercano uno spiraglio, il metallo punzecchia, un graffio alla carne e subito mi ritraggo, basta sofferenza.

Piango e soggiaccio a questa nuova me: io-voglio-vivere.

Resto audace e ribelle nelle parole che leggo, che scrivo.

La settimana scorsa ho comprato La fisica della malinconia di Georgi Gospodinov (edizioni Voland). Il mio libraio ha un rituale: timbra una fascetta di carta marroncina, l’avvolge intorno al libro e v’inserisce all’interno una vecchia cartolina spedita da chissà quale parte d’Italia.

Fremo ogni volta per scoprire l’omaggio, bramo che vada oltre i tradizionali saluti dalle vacanze di un dì.

Ho chiesto al libraio: ora conosco l’origine delle sue cartoline. Però.

– Però…?

– Eh, però la mia testa…

– Lo so che sei una testona, ma cosa c’entra adesso?

– La mia testa ne ha già rielaborato i pezzi, la storia non è più incontaminata. La racconto lo stesso?

– E ti dobbiamo pregare?

Marino che vive al paesello montano natio, Marino con la bocca storta da che si sappia, Marino senza soldi né appeal per attirare una compagna. Marino, che una figlia con una bracciante mentecatta gli è anche uscita, poi non ne sa più nulla di una né dell’altra.

Marino che si arrabbia col sorriso, Marino che inclina il capo se ringrazia. Marino che un giorno alla bottega conosce Celia: quelle cosce mulatte sono troppo, ma accetta il dono finché la vita glielo permette.

Marino e Celia sembrano beati, in un paese che non capisce come: lui svuota cantine sull’Ape sgangherata, lei assiste la vecchia Elvira che soffre di paturnie. Ogni sera, appena la pendola dice otto, Marino varca il cancelletto a ruggine, lungo abbraccio dopo un tempo arido e annusa il fumo della sua pietanza esotica. Non manca notte che non porti un ninnolo, ciondolo o spilla o statuina mutila. Allinea gli scarponi bugnati all’ingresso, ci mette dentro le chiavi che non può scordare e insieme fanno festa, Marino e Celia, sotto la luce che traballa gravida.

Ogni tanto i clienti lo pagano, Marino, lo pagano in banconote che subito regala a Celia, sul loro tavolo. Celia lo trattiene, non preoccuparti, di soldi bastano quelli che guadagno io; e bacia quella bocca storta e amabile.

Nel dopocena portano in cantina la merce accatastata, smistano robe da tenere e vendere, risanano il recuperabile e stringono sacchettoni per la discarica.

E conservano lettere, Celia e Marino, lettere e cartoline che puzzano di emozione, del lieto e del dolore, che narrano la vita di chi è fuori dalla memoria e non ha più ricordi; lettere e cartoline che Marino e Celia si raccontano a vicenda, prima di dormire.

Marino è felice con la sua donna colorata, così felice che aiuta a traslocare chiunque glielo chieda, e lo fa gratis, tanto è contento, se avessi bisogno gli altri mi aiuterebbero.

Ma il bisogno, si sa, prima o poi chiama, e la risposta non sempre è quella attesa.

Celia, scaduto il permesso, è richiamata al suo Paese, quel paese così lontano e pitturato che per Marino non ha una faccia. Entrambi sono pazzi dentro, pazzi e in bilico saltellano da un piede all’altro, implorano aiuto da chi al paesello conta. Tutti dispiaciuti ma non so che fare, non posso, non ora, dai che andrà bene, e intanto i giorni passano e Celia sta per partire.

Marino non osa rinunciare, neanche per seguirla, neppure se fa male. E perde la sua Celia.

Com’è lunga la sera nella casupola fredda, la luce è stabile ora che Marino fa pagare i suoi servigi a chi credeva amico.

Celia prova a contattarlo ma cade sempre la linea, il cellulare da quel fianco di montagna prende poco e non raggiunge il Perù. Gli scrive una lettera, due, tre; Marino non risponde, lei demorde. O forse le succede qualcosa, ma la distanza è troppa per preoccuparsi.

E scorrono così, quegli anni di vita trattenuta. Marino sta nella catapecchia e basta a sé, tra lavoretti ormai radi causa schiena e beni da smistare e rivendere. Conserva lettere e cartoline, Marino dalla bocca via via più storta, uniche a distrarlo qualche attimo dalla sua Celia.

Non l’ha chiamata, non le ha scritto, ma l’ultima parola e poi spira è Celia.

Lo trovano una settimana dopo, qualcuno si premura di rintracciare la figlia: brusca, sgraziata e insofferente, cammina sulle travi che scricchiolano annerite scalciando i resti della vita di un paese. Inciampa sugli scarponi, fanno capolino le chiavi, colpisce con rabbia. Il curatore testamentario le consegna il denaro lasciato in un cassetto, le tre lettere avvolte nella velina e le scatole che custodiscono mezzo secolo di memoria epistolare.

Intasca i soldi e butta il resto, non li voglio questi schifi.

A un mercatino il mio libraio recupera lettere e cartoline, le acquista in blocco affascinato dalla varietà. L’ambulante conosceva Marino, mostra gli scarponi callosi quanto dovevano essere il volto e le mani del proprietario.

Il libraio conserva in cassaforte le tre suppliche di Celia, ma regala ai suoi clienti i rimasugli di quel paesino quasi spento tra i monti, non vuole che si estingua.

L’altro giorno non mi ha lasciato una cartolina, nella fascetta de La fisica della malinconia. C’era una lettera. Bordo a righe rosse e blu su busta ingiallita, VIA AIR MAIL. Non l’ha scritta Celia, ma qualcosa deve pur raccontare. E poi l’ha tenuta Marino, con le sue manone come foglie di ficodindia, di sicuro l’ha letta prima di addormentarsi, magari proprio alla sua amata.

Non mi decido ad aprirla, adoro la malia di quest’attesa. La nascondo in un libro che porto sempre in borsa: la sbircio di straforo, l’accarezzo, la pregusto. Se sarà una delusione, mi avrà comunque dato tanto.

Che strano, come mai nessuno m’interrompe?

Va beh la lettera è qui, con me, tangibile e vera.

La prossima volta ne svelerò il contenuto…

I could never change
Just what I feel
My face will never show
What is not real.

(RHCP, 1991, I could have lied, Warner Bros. Records)

Scritto da Scribastonato il 09/11/2020

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Viaggio con Tolstoj

13 martedì Ott 2020

Posted by scribastonato in Travelling

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Tag

aspirante scrittore, Bulgaria, esordiente, Pessoa, poesia, romanzo, scrittura, scrivere, Tolstoj, Travelling, viaggiare, viaggio, writing, Yasna

Photo by Plamen Agov – studiolemontree.com – CC BY-SA 3.0

La settimana scorsa ho conosciuto una coppia insolita. Nelle loro torrette arroccate su un’altura impervia niente tv né social, internet solo per servizio e cibo a chilometri dieci; quei due non fumano non eccedono si divertono q.b., leggono suonano e padroneggiano cinque lingue l’uno.

Lui, geologo girovago per professione, ha diretto gestito orientato e incaricato fino al logoramento; ora obbedisce a lei sola, a un ingegnere di testa e di talento che l’ha investito della gerenza domestica.

Smarrita in un distanziamento boschivo reso surreale da sedili diffusi, tra un bignè e una slerfa de fugassa ho apprezzato gli spunti al femminile sulla sicurezza nei cantieri e le avventure fiabesche del geologo ammaliatore.

Si sofferma sulla Georgia lui, intervallandosi con domande di cultura generica che pungerebbero, se non intercedesse la compagna suggeritrice. Georgia e tradizioni che a me, non glielo dico, ricordano la Sardegna di qualche decennio fa; Georgia tra Caucaso e Mar Nero, dove le donne comandano purché non si sappia in giro; Georgia e innovazione, spiega, senza la paura nostrana d’ipotecare il tempo.

Ascolto estasiata finché non si blocca a redarguire me, proprio me che non do adito:

– Vorrei, vorrei non fai che ripetere, vorresti andare ovunque. Perché non scegli un posto e parti?

Sterminati attimi d’angoscia e bofonchio:

– Non tutti hanno la fortuna di viaggiare per lavoro, anche sognare è un po’ partire.

Da sognare in poi non dev’essersi capito un granché, tanto ho bisbigliato.

Ma è bastato, lui scalpita pronto al galoppo. Lei gli stringe la cavezza:

– Sono d’accordo, desiderare ci avvicina a possedere. Tra figli e impegni non è facile spostarsi. Quando sarai più libera, recupererai.

Amen. Non l’ha convinto, se si è accanito sul pecorino ai gelsi mulinando occhi ancora accesi. A fauci di nuovo vuote, ha ripreso la carica:

–  Se potessi partire oggi, dove andresti?

– Te l’ho detto, sono tanti i posti che prima o poi…

– Scegline uno e bon, troppi progetti sono zero successi.

Credo gli sia arrivato un calcio sotto il tavolo, e lei ha chiuso il discorso:

– Non lo dice certo a uno zotico come te, –  mi ha fatto l’occhiolino e ha cambiato argomento.

Un gran bel pomeriggio senza altri intoppi, ma due pensieri hanno preso a rimbalzare nel flipper della mia testa:

1 – Troppi progetti sono zero successi.

Forse il geologo ha ragione, anche per scrivere devo eliminare il resto. Ha battuto e ribattuto sulla programmazione a lungo termine: scegli un progetto, guardalo nascere ma immaginalo tra cinque anni, non lesinare sul tempo. Se poi non è destino i giorni e le settimane si contrarranno da sé, si dilateranno, spariranno. Tu intanto osa. E resta fedele a quella sola idea, che gli altri corrano pure dietro a mille gonnelle.

2 – Se potessi partire oggi, dove andresti?

Cercherei un posto al quale appartenere. Per sentirmi a casa, tra chi prova e pensa come me, senza brama di scappare ancora, la finestra aperta a respirare un cielo che accomuna. Invece niente mura a proteggermi, nessun paese si carica della mia pena; quando cade il buio, non c’è colonia umana a comprendermi.

Ricordo una frase di Pessoa, o forse non la ricordo così bene se non esce neppure su internet. Dovrei controllare i volumi nella libreria, scaffale in alto a destra; no, lascio perdere. La frase recita: “Vorrei essere ogni uomo in ogni luogo”. Ecco dove andrei, oggi: ovunque e nei panni di chiunque. Infiniti modi di essere e di vivere.

Ma resto sempre a qualche passo di distanza, e l’altro, qualunque altro, lo percepisce.

Lo so, sto barando, il geologo peregrino non intendeva questo.

Parto per un viaggio, uno solo. Non so scegliere. Mi affido per la prima volta a Google Earth, pare sia meglio di Maps. Schiaccio a caso, un mappamondo 3d piroetta sul monitor. Clicco ancora e la Terra smette di girare, due clic e s’ingrandisce. Che figata, senso orario, antiorario, su e giù, again and again.

Mi do tre possibilità, due le scarto e una è mia. Sembra la Ruota della Fortuna, chissà dove finirò. Zoom e si legge qualche nome, villaggi dal doppio carattere occidentale e arabo. Allargo allargo allargo, sono in Ciad: Zouar, Iriba, Adré, Kaouda, piccoli agglomerati nel deserto di case basse e recintate; ancora giù per altipiani e savane, Mongo, Abou Deia, Sarh, Bokoro, Mao fino al lago Ciad, quindi raggiungo la capitale N’Djamena, sul fiume Chari. Neanche a N’Djamena funziona lo Street View, qualche foto di una città recente e polverosa, cambio aria.

Giro ancora la ruota, giro giro e poi fermo il mondo. Firenze?! Non mi sembra il caso, la conosco abbastanza. Ultima chance: gioco la carta ”mi sento fortunato”, Google Earth sceglierà per me.

Vado, vado… ma come, in Bulgaria?! Sognavo la Norvegia, Berlino, Tokyo!

– E perché non ci sei andata?

– Non t’impicciare, confidavo nella sorte. Però in effetti… perché non ho scelto io? Sempre la solita storia: lascio che gli eventi seguano il loro corso e poi mi lamento; forse se avessi…

– Comunque in Bulgaria si mangia bene. Ho visto una trasmissione, fanno un kebab buono buono e gli involtini col formaggio sono invitanti, e poi la polenta…

– Va bene dai, vediamola questa Bulgaria. Fossi almeno capitata nella bella Sofia, o a Plovdiv, tra moschee e anfiteatri romani. Niente, sono a Svilengrad, giù giù al confine con Grecia e Turchia, in pratica un casino. È un posto tristemente noto perché da qui passano i profughi siriani che risalgono dalla Turchia, vengono raccolti col loro fardello, tanto dolore e poca fiducia, nei centri di smistamento in zona. Faccio un giro, ricordo immagini televisive, ho un groppo in gola, piango.

Se le scritte in alfabeto cirillico inquietano, lo STOP rivela cartelli stradali leggibili, procedo più spavalda. Cambio quartiere, supero una scuola, raggiungo uno dei peggiori hinterland mai visti – e dire che io nasco come randagio di periferia, –  degrado che sgretola prefabbricati, cortine e radar parabolici. Ma a incupire è la ruggine che cola, ruggine sorella di miseria e incuria. Un cane fulvo fissa l’obiettivo Google, supplica portatemi via. Gli alberi sono secchi e non c’entra l’autunno. Mancano asfalto, pattumiere e auto.

Esco miserere dal sobborgo, cuore sospeso e silenzio scialbo, saluto con conforto un minimarket. Earth non va oltre, dietrofront, di nuovo lo scempio. Rivedo ruggine, muri scorticati, balconi in gabbia, sbarre divelte. Frontiera di fatto, ricomincia l’asfalto con aiuole e villette, cancellate e giardini. Tinte vive, perfino il cielo – bontà di Google – ha cambiato umore. Nel parco giochi siepi potate, lanterne a boccia, bidoni gialli, plotoni di panchine. Tutto è pulito e riluce, viene il magone se penso a dietro l’angolo.

Dov’è il sindaco, che gliene dico quattro?

Costeggio la Mariza che scorre algida, chiedo a un tizio dal buon inglese: benvenuta a Svilengrad, visita il Ponte Vecchio. Annuisco finché non mi indica il municipio.

Eccolo, coi lampioncini che manco il Café de Paris a Montecarlo, solo che l’edificio è basso. Il sindaco mi riceve quando minaccio rimostranze al console, ma non capisce il mio parlato – finge? – e mi liquida con due bazzecole.

Zdravej ciao, Kolko struva? quanto costa? – è quanto imparo in poche ore.

M’intriga questa Bulgaria, ne percepisco il richiamo. Raggiungo il Mar Nero, distretto di Burgas, è qui che intendo muovermi.

I personaggi prendono voce, si tratteggiano prudenti i volti. Le vie di Nesebar fanno un po’ vacanza, a Tsarevo dormo sulla spiaggia. Ora anch’io ho un posto che mi vuole, è quel villaggio che blandì Tolstoj legando il nome allo scrittore russo, merita indagini. Mi fermerò per qualche mese o anno, resterò ospite di Varvara e Pavel.

Solo lì vorrei andare, risponderei oggi al geologo.

– Se va bene quello se n’è già sparito in Adzerbaijan.

– Buon per lui, avremo tanto da raccontarci al rientro.

Intanto parto per Yasna Polyana, e stavolta viaggio con Tolstoj.

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Non si butta via niente

07 venerdì Ago 2020

Posted by scribastonato in writing

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aspirante scrittore, esordienti, gatti, racconti, romanzo, scrittura, writing

8

Continuo a perdermi tra gli appunti degli ultimi anni, idee e bagatelle da riesumare o seppellire.

– Zombie?

– Naaa, zitto tu, niente putrefazione. E poi non è ancora il tuo momento.

Oggi farei lavorare al mio posto Ciccia e Ciccino, troppe incombenze che mi creano ansia, devo quasi uscire.

Ho ricominciato per la terza volta “On writing” del Re. Come sempre mi sono stufata a poco dall’inizio, vorrà dire qualcosa se ho letto il mio primo S. King solo in lockdown (imponendomelo a fatica).

Scelgo il compromesso: accantonerò as usual l’indigesto trattatello reale per continuare con l’amabile tomino di Guido Conti (“Imparare a scrivere con i grandi”) e col compianto Haruf (l’ultimo tradotto è delizioso), ma sacrificherò qualche ora per seguire le lezioni di stile di W. Strunk, come suggerito da King.

Dall’archivio a cilindro (che poi è un sacchettone di quelli robusti, da supermercato, pieno zeppo di fogli e agende senza priorità) estraggo una storia ottocentesca, un mix tra Paperinik e lo Squartatore con un retrogusto di beffa in agguato dietro i lampioni. Sarebbe laborioso estrapolare qualcosa di utile da questi appunti, forse perché quindici anni fa immaginavo di trarne una storia lunga, una sceneggiatura più che un romanzo. Purtroppo temo ne uscirebbe un altro racconto di mezza misura tipo il mio ultimo lavoro, quaranta pagine scarse improponibili a chiunque.

– E tu allunga il brodo!

– Piuttosto lo faccio restringere, almeno ha più sapore. L’argomento è delicato, rischio di scrivere l’ennesima storiella trita e ritrita. Poi si ha un bel dire che tutto è già stato scritto e che a fare la differenza è il come: lo stile di chi racconta, il senso del ritmo, il lessico e il resto. Ma se la storia non dice nulla o non è spendibile manco a pregare, potrei anche avere uno stile da ultimo Strega che a nessuno importerebbe.

– Mi hai convinto, quella di Paperinik lo Squartatore non voglio sentirla. Altre idee? Fruga, fruga…

– Ecco, qui ho un bel paio di mocassini.

– Mocassini? Ma non sono un po’ fuori moda? Giusto mio padre li metteva.

– E infatti è proprio quello il senso. Appartengono a un ragazzo di strada, un funambolo che gira il mondo con una valigia di trucchetti e poco più, ma non si separa mai dai mocassini di suo padre. Li pulisce, li lucida e li indossa ogni volta che fa uno spettacolo. E ogni volta rivive la delusione, la stessa che ha causato a suo padre scegliendo una strada diversa da quella tracciata. Ma una notte, a Venezia…

– Basta! Non voglio saperlo, se no non la scrivi più. Forza, fila a lavorare e butta giù questo racconto, che voglio leggerlo.

– Va bene, allora scriverò “Lo spettacolo era finito”.

Lo spettacolo è finito…

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