«Il buco», racconto di Roberta Poggio
12 venerdì Ago 2022
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in12 venerdì Ago 2022
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in09 lunedì Nov 2020
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aspirante scrittore, cartoline, lettere, libraio, libreria, lotus flower, music, racconto, RHCP, romanzo, writer
There must be something
in the way I feel
that she don’t want me to feel…
Così venti e più anni fa i Red Hot Chili Peppers attaccavano la loro I could have lied. Li ascoltavo in loop, quel tardo pomeriggio di autostop tra Bolsena e Roma station. Sulla decapottabile di un bordò parecchio losco i due arabi cappuccio e gioiellazzi, uno alla guida col sigarillo spento e l’altro a grattarsi il piede in infradito, mi volgevano domande dal look sincero. Credo provassero pena.
La musica amplificava il male che mi picchiava dentro: un amore precipitato in fretta, i se avessi fatto o se fossi stata e da domani e mai più, e i due arabi rap che aggiungevano beat al mio mesto freestyle.
Non sono cambiata molto da allora, continuo a fare e mi ostino a essere, forse perché – per dirla alla RHCP – il mio volto riflette sempre il vero. Purtroppo.
Tre giorni a Viterbo, bed & breakfast a ridosso del cerchio di mura. Lotus flower, fiore antistress di metallo e perline sul comò della stanza che mi ospita. Riconosco il giochetto indiano, lo vendevo nel mio peregrinare giovanile, riproduce le forme dei pianeti, mi manteneva in permanent vacation per le vie spensierate d’Europa.
Le notti di freddo e stelle sarebbero finite quella volta a Bolsena, una rottura assecondata dai miei amici arabi rap. Dioniso che irrompe come allora per stravolgere un presente dall’aria più mite, accende una danza odierna che straccia i freni, i blocchi e i divieti cui mi sforzo di aderire.
Azzanno le recinzioni del coprifuoco, gengive sanguinano tra il ferro incorrotto, i denti vacillano e la lingua è sbrandellata ma continuo a masticare, a colare, a lacrimare senza requie, perfino quando le guance sono squarciate e l’osso dubita di reggere.
Mastico anima e smanio libertà, certi ricordi generano fiumane. Ma la libertà stavolta può portare morte, non si ragiona col morbo oltre la rete.
Gli Einstürzende Neubauten urlano, martellano, si fanno propulsori.
No, non sono più così. Le mani sulla rete cercano uno spiraglio, il metallo punzecchia, un graffio alla carne e subito mi ritraggo, basta sofferenza.
Piango e soggiaccio a questa nuova me: io-voglio-vivere.
Resto audace e ribelle nelle parole che leggo, che scrivo.
La settimana scorsa ho comprato La fisica della malinconia di Georgi Gospodinov (edizioni Voland). Il mio libraio ha un rituale: timbra una fascetta di carta marroncina, l’avvolge intorno al libro e v’inserisce all’interno una vecchia cartolina spedita da chissà quale parte d’Italia.
Fremo ogni volta per scoprire l’omaggio, bramo che vada oltre i tradizionali saluti dalle vacanze di un dì.
Ho chiesto al libraio: ora conosco l’origine delle sue cartoline. Però.
– Però…?
– Eh, però la mia testa…
– Lo so che sei una testona, ma cosa c’entra adesso?
– La mia testa ne ha già rielaborato i pezzi, la storia non è più incontaminata. La racconto lo stesso?
– E ti dobbiamo pregare?
Marino che vive al paesello montano natio, Marino con la bocca storta da che si sappia, Marino senza soldi né appeal per attirare una compagna. Marino, che una figlia con una bracciante mentecatta gli è anche uscita, poi non ne sa più nulla di una né dell’altra.
Marino che si arrabbia col sorriso, Marino che inclina il capo se ringrazia. Marino che un giorno alla bottega conosce Celia: quelle cosce mulatte sono troppo, ma accetta il dono finché la vita glielo permette.
Marino e Celia sembrano beati, in un paese che non capisce come: lui svuota cantine sull’Ape sgangherata, lei assiste la vecchia Elvira che soffre di paturnie. Ogni sera, appena la pendola dice otto, Marino varca il cancelletto a ruggine, lungo abbraccio dopo un tempo arido e annusa il fumo della sua pietanza esotica. Non manca notte che non porti un ninnolo, ciondolo o spilla o statuina mutila. Allinea gli scarponi bugnati all’ingresso, ci mette dentro le chiavi che non può scordare e insieme fanno festa, Marino e Celia, sotto la luce che traballa gravida.
Ogni tanto i clienti lo pagano, Marino, lo pagano in banconote che subito regala a Celia, sul loro tavolo. Celia lo trattiene, non preoccuparti, di soldi bastano quelli che guadagno io; e bacia quella bocca storta e amabile.
Nel dopocena portano in cantina la merce accatastata, smistano robe da tenere e vendere, risanano il recuperabile e stringono sacchettoni per la discarica.
E conservano lettere, Celia e Marino, lettere e cartoline che puzzano di emozione, del lieto e del dolore, che narrano la vita di chi è fuori dalla memoria e non ha più ricordi; lettere e cartoline che Marino e Celia si raccontano a vicenda, prima di dormire.
Marino è felice con la sua donna colorata, così felice che aiuta a traslocare chiunque glielo chieda, e lo fa gratis, tanto è contento, se avessi bisogno gli altri mi aiuterebbero.
Ma il bisogno, si sa, prima o poi chiama, e la risposta non sempre è quella attesa.
Celia, scaduto il permesso, è richiamata al suo Paese, quel paese così lontano e pitturato che per Marino non ha una faccia. Entrambi sono pazzi dentro, pazzi e in bilico saltellano da un piede all’altro, implorano aiuto da chi al paesello conta. Tutti dispiaciuti ma non so che fare, non posso, non ora, dai che andrà bene, e intanto i giorni passano e Celia sta per partire.
Marino non osa rinunciare, neanche per seguirla, neppure se fa male. E perde la sua Celia.
Com’è lunga la sera nella casupola fredda, la luce è stabile ora che Marino fa pagare i suoi servigi a chi credeva amico.
Celia prova a contattarlo ma cade sempre la linea, il cellulare da quel fianco di montagna prende poco e non raggiunge il Perù. Gli scrive una lettera, due, tre; Marino non risponde, lei demorde. O forse le succede qualcosa, ma la distanza è troppa per preoccuparsi.
E scorrono così, quegli anni di vita trattenuta. Marino sta nella catapecchia e basta a sé, tra lavoretti ormai radi causa schiena e beni da smistare e rivendere. Conserva lettere e cartoline, Marino dalla bocca via via più storta, uniche a distrarlo qualche attimo dalla sua Celia.
Non l’ha chiamata, non le ha scritto, ma l’ultima parola e poi spira è Celia.
Lo trovano una settimana dopo, qualcuno si premura di rintracciare la figlia: brusca, sgraziata e insofferente, cammina sulle travi che scricchiolano annerite scalciando i resti della vita di un paese. Inciampa sugli scarponi, fanno capolino le chiavi, colpisce con rabbia. Il curatore testamentario le consegna il denaro lasciato in un cassetto, le tre lettere avvolte nella velina e le scatole che custodiscono mezzo secolo di memoria epistolare.
Intasca i soldi e butta il resto, non li voglio questi schifi.
A un mercatino il mio libraio recupera lettere e cartoline, le acquista in blocco affascinato dalla varietà. L’ambulante conosceva Marino, mostra gli scarponi callosi quanto dovevano essere il volto e le mani del proprietario.
Il libraio conserva in cassaforte le tre suppliche di Celia, ma regala ai suoi clienti i rimasugli di quel paesino quasi spento tra i monti, non vuole che si estingua.
L’altro giorno non mi ha lasciato una cartolina, nella fascetta de La fisica della malinconia. C’era una lettera. Bordo a righe rosse e blu su busta ingiallita, VIA AIR MAIL. Non l’ha scritta Celia, ma qualcosa deve pur raccontare. E poi l’ha tenuta Marino, con le sue manone come foglie di ficodindia, di sicuro l’ha letta prima di addormentarsi, magari proprio alla sua amata.
Non mi decido ad aprirla, adoro la malia di quest’attesa. La nascondo in un libro che porto sempre in borsa: la sbircio di straforo, l’accarezzo, la pregusto. Se sarà una delusione, mi avrà comunque dato tanto.
Che strano, come mai nessuno m’interrompe?
Va beh la lettera è qui, con me, tangibile e vera.
La prossima volta ne svelerò il contenuto…
I could never change
Just what I feel
My face will never show
What is not real.
(RHCP, 1991, I could have lied, Warner Bros. Records)
Scritto da Scribastonato il 09/11/2020