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Solitudini bastate…

15 lunedì Ago 2022

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aspirante scrittore, brioche, esordiente, Ferragosto, max gazzè, musica, Natale, racconti, scrittura, scrivere, writing

(per dirla con Max Gazzè)

La solitudine arriva presto, pezzo a pezzetto, e con te rimane. Arriva senza che te ne accorga e non se ne va mentre sorridi, quando a Natale vi abbracciate a tavola, se al Ferragosto sole in terrazza e gavettoni tutti, tutti voi che ve ne state insieme. Poi passa l’anno, torna un altro Ferragosto e… manca una persona.

– Una sola, che sarà mai.

– Sarà eccome.

A Natale ne mancano due, di convitati, tra chi cresce e chi se ne va più gatti vari che scappano o muoiono, e tu sei lì a guardare chi hai, e la casa che sembra comunque piena di un giorno festoso; qualche mese dopo sei un’altra volta a crudo e melone nel dehor sul mare più arachidi e Gin Tonic che si fa uno strappo alla dieta, se oggi siamo tutti insieme.

La solitudine è ancora lì, in quei momenti è con te che proprio non lo capisci e allora procedi campione, va’ avanti e conquista; finché a un certo punto. Si fa toccare. La tocchi. È fredda, la solitudine. È fredda anche a Ferragosto, quando il sole scalda che sembra cuocere e vai al bar solito che tutti trascurano per la nuova croissanteria fighetta che ha aperto all’angolo. E sei in coda, una coda che non ti aspettavi lì, al bar di solito vuoto, una coda calda in questa feria d’agosto insieme agli altri estranei, a tutti gli altri che sorridono in fila e pregustano la loro calda giornata di festa.

Ma poi. Scambio di sguardi col vecchio che ha un tocco di focaccia, lo tiene come le paste per sua moglie e i figli quando sua moglie c’era e lui interessava ai figli, quando comprava cavolini e bignè mi dia soprattutto quelli alla crema e aspettava fuori da messa col sorriso e i dolci in grembo, e ignorava il rimprovero di lei dacché non era entrato in chiesa, e rincasavano con passo da domenica a mangiare il buono che era già pronto all’alba. Ora ti guarda lui, il vecchierello dalla polo a righe e macchie, ti guarda con quel suo cane ignaro e ti fa capire che lui invece sa, sa quel che viene e sa che ci sei anche tu lì dentro, vi riconoscete nella solitudine della vostra festicciola sobria.

Esci con un groppo allo sterno, proprio sotto la gola, un magone al petto che ti mangia dentro, così tanto che non senti più fame: prendi la tua brioche al cioccolato nella carta spessa che non unge e ti avvicini al cesto della spazzatura, ché tanto la solitudine sazia. Devi cercare di fartela compagna, quella. Tempo ne hai, hai ancora anni, ora che sai di averla al tuo fianco. E devi ammansirla devi, perché se no la solitudine fa male, arriva a un punto che diventa brutta, così di colpo, e non ti dà tregua. Se la coltivi, invece, un po’ ti è amica: o la prendi con te, la solitudine, o entra a forza e poi ti espugna e sbrana.

Vorresti buttarla, quella dannata brioche, sbatterla sul fondo del cestino e schiacciarla bene col pugno ma non lo fai, tuo malgrado non lo fai perché il cestino è pieno e la brioche non ci starebbe e ancora non lo fai, se no finisce la tua parvenza di Ferragosto e la solitudine diventa vera.

Poi l’inverosimile, se succedesse in un libro o alla tivù non ci crederesti: cade la brioche al cioccolato, cade e pensi non è atterrata male, tanto è protetta dalla carta. Ti chini, la afferri, la osservi e però il sacchetto è a rovescio, la brioche sguscia e cade sull’asfalto del marciapiede. La raccogli subito e pensi sono passati meno di cinque secondi, se soffio posso mangiarla e non succede niente ma poi guardi a terra, tra chiazze di pisciata e piume e cicche e altro, no non si può, che schifo. E subito la solitudine ti è appollaiata in spalla.

Intanto è cambiato davvero il tempo, come era scritto in agenda. Piove forte e ristora, ma qualcuno no. No chi è in guerra, no chi quattro anni fa attraversava il ponte. No chi vuole tornare col culo in spiaggia, oggi, in attesa che arrivi il suo turno.

– Il turno di cosa, per comprare le brioche?

– Ma no, che dici, il turno per… lascia perdere, buon Ferragosto.

…a farsi da mangiare. (Per chiudere con Max Gazzè)

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Camminare

16 mercoledì Dic 2020

Posted by scribastonato in Reveries

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Tag

aspirante scrittore, Candy Candy, dicembre, marshmallow, Natale, neve, romanzo, scrittura, snow, writing

Ho camminato sulla neve ghiacciata. Morbida sotto e ricoperta da un lieve strato di gelo, tipo la crema catalana o i marshmallow con la crosticina di cioccolato, quelli che si vendono sulle bancarelle al luna park ma scelgo sempre le cocacole e i coccodrilli gommosi a palate, come nei candy shop inglesi. E finisco per non assaggiarli mai, quei dolcini a forma di talpa. Che bello il gioco delle talpe da acchiappare, la prima volta l’ho visto in vacanza coi miei, a Londra, ero più piccola di Candy alla casa di Pony. Entriamo in questa sala giochi tutta luci e urla meccaniche, il Trocadero nel mio immaginario dà ancora punti a Disneyland; mi passano un grosso martello dall’aria simpatica e comincio a menare come un ferraio sulle povere teste delle talpozze che si alternano fuori dalle buche, lente e più veloci e non sai mai dove spunteranno, colpisco alla rinfusa che Thor spostati e non faccio esattamente una strage, ma rido a fauci così smodate che contagio il circondario, la mia famiglia e anche i giocatori in zona, per lo più ragazzi che si sforzano di rispettare un contegno adolescenziale. Eh, da adolescente non è facile mantenere una reputazione, velarsi di aloni che sappiano di mistero o potenza o perfino di sacralità, coltivare una scorza che fa un po’ Terence di Candy Candy per custodire quel ripieno tenero e spugnoso, che si guasta in un attimo.

Ho camminato poi sul ghiaccio vero e puro, mio figlio che sgusciava furbetto lontano da me come il giorno in cui è nato, anche stavolta senza farsi male, e si divertiva quasi avesse avuto lo slittino sotto il culo. Da bambina andavo spesso sulla neve, perché era inverno perché lo facevano tutti perché i miei si aggregavano perché si respira aria sana perché è spassoso. Non mi sono mai divertita troppo sulla neve, forse perché dopo aver quasi evirato un istruttore passandogli sotto le gambe con gli sci a candela, ho avvertito il pericolo di uno svago che non fa per me. Conservo un buon ricordo delle giornate passate sullo slittino, quando scendevo storta col mio tutone – altro che tecnico! – tinta beige squaraus di mucca e finivo regolarmente a puccetta nel nevischio, sempre fradicia a fine gioco ma che risate anche lì, altri momenti belli che se li avessi immaginati così tenaci nel tempo, forse qualche foto ricordo senza rugne né smorfie a mio papà l’avrei concessa. Risalivo sguaiata con lo slittino a rimorchio per conquistare la discesa prima di mia sorella, i guanti non più un dito per apertura, e ridevo sfrenata per le cadute che io facevo, che lei faceva, che speravamo facessero i nostri genitori. E mi sentivo uno di quei bambini delle storie fredde e lontane, il piccolo eroe di Haarlem che salva i compaesani bloccando per tutta la notte la diga con un dito; Kay e Gerda che, meno imbacuccati di me, si spostano per terre incantevoli  sulle quali la regina delle nevi fa sentire il suo respiro prima ancora di Babbo Natale. E oggi non c’è neve che sia sciabile sempre e per tutti, non è detto che ogni slittino sia cavalcabile e non è facile, forse neanche appetibile, fare un viaggetto a Londra, in Olanda o a Rovaniemi. Ma. Proprio ieri l’Oms ha detto che Babbo Natale è immune dal virus e può circolare, ho pianto di gioia e penso sia una gran cosa per i nostri bambini, costretti a vivere una cattività che neanche i genitori sono propensi a fotografare, meglio non lasciare traccia; una gran cosa per i nostri adolescenti, che avranno qualcosa in più da condividere e confutare con gli amici virtuali, virtuali come Babbo Natale; e una gran cosa per noi con più anni in faccia, noi bisognosi di qualcuno che, pur relegato in un cantuccio segreto, in qualche modo ci riporti a sperare.

Ho anche camminato sulla fanghiglia fredda, quel bianco sporco accumulato a bordo strada che a volte occupa i posti auto buoni, che fa pezzati i campi lungo i tratti, e sporca le scarpe delle signore che si ostinano a lucidarle; quella poltiglia zozza e puzzolente, che spinge a centro corsia le biciclette, e illude i giovani che sì giocheranno ancora, regala ai pensionati pretesti di mugugno e sfida i cani a tingerla di giallo, che allunga il percorso di chi già ha fretta, e ci ricorda che l’inverno è tanto lungo, dobbiamo continuare a camminare.

Scritto da Scribastonato il 16/12/2020

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Peccati veniali

21 mercoledì Ott 2020

Posted by scribastonato in Reveries

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Agila, Alice, Amabili resti, aspirante scrittore, Cocteau Twins, Converse, esordiente, Genova, Io ballo da sola, letteratura, poesia, pubblicare, scrittura, writing

Flutti di nebbia tra alberi consunti, fari stondati ad abbagliare i campi, trattori precoci, galaverna che al solo sentirne parlare vagheggi. Buio, il buio confonde asfalti e terreni, stamane.

Mi si è rotta la macchina. Un’attempata Agila dura a respirare. “Era ora che cambiassi”, il parere di tutti. Il distacco più doloroso da quando ho finito i Karamazov.

Quell’auto, che ha perfino incontrato mio nonno (“Che strana, Pullu, è un furgone?”), ci ha guidato alla crescita quale cantuccio caro e fidato.

Ultimo baluardo della nostra vecchia vita, sprazzo di Liguria marchiata GE sulle terga, circolava per le strade di questo Piemonte che ci ha fatto così male, che pian piano ci entra nelle viscere.

L’esplosione il martedì: una spia sibillina ma neanche troppo, il fanale prende a piangere olio e poi stop, fumata bianca, demolizione e avanti col nuovo papa. Conservo l’antenna sbilenca in borsa.

Ho incontrato Piero pochi giorni dopo, vagavo mesta tra concessionari impavidi. Piero Agila, così battezzato, è una C3 Picasso dal respiro diesel, un elefante irsuto che offre alloggio a chitarre e zaini e ci ha accolto come il primo amore. Disciplinato seppur tardo di comprendonio, i ragazzi già l’adorano.

Meno di una settimana e l’antica auto è dimenticata. Temevo di farne una malattia, per quel che patisco i distacchi.

Venti minuti spartiti in treno, in coda o su una panchina, venti minuti e mi affeziono all’altro da “non ti scordo più”. Peccato veniale se due giorni dopo vige l’oblio, l’intenzione era genuina.

Coi libri non sono così volubile, non subito almeno. Siamo puttani nostro malgrado, soffriamo da far impallidire i tragici e poi si ricomincia da zero, manco da tre come faceva Troisi.

Il trasferimento non è stato semplice, separarsi dal mare strappa i sensi. Ho dato una connotazione a questa cittadina di pianura, l’ho immaginata come sarebbe piaciuta a Steinbeck, a Mc Carthy, a Haruf o a Camon, poi l’ho declassata a luogo di attività e impegno, se vogliamo di abitudine. E va ad aggiungersi alla mia Genova, a Imperia, a Ittiri, Gressoney, Innsbruck.

Tanti posti nel cuore rivelano la mia incostanza.

Quanti ritorni adolescenziali passati a fantasticare su incontri mancati e verità incompiute: rapporti svenevoli e amicizie fraterne, evasioni notturne complice il pianterreno, autostop lungo strade immaginate. La musica eccitava i miei miraggi, vedevo convegni con certi amanti che non c’erano.

Una volta una lieve cotta, un tizio più romantico del presunto, ha percorso chilometri per aspettarmi sotto casa. Ma le sorprese, si sa, meglio lasciarle ai bambini: quando l’ho visto sono scappata senza farmi vedere, la realtà non ammalia come il sognato. Me ne vergogno, sia chiaro, e se c’è giustizia sarà stato ripagato.

Da ragazza vantavo la bontà dei miei sentimenti: “IO fedele al compagno o all’amica per affetto, non per necessità; IO che conosco gli abissi delle emozioni; IO che i legami nascono spontanei, piuttosto crepo di solitudine”. E sola restavo, a fissare le nubi che si dimenavano sotto il manto di Alice dei Cocteau Twins, col mio vano orgoglio e il desiderio di essere ovunque, chiunque lontano da me.

Alice colonna sonora di Io ballo da sola di Bertolucci, Alice che bagna gli Amabili Resti di Peter Jackson (film tratto, peraltro, dal romanzo della scrittrice Sebold, che di nome fa proprio Alice).

Ricordo un pomeriggio nel cortile della Casa dello Studente, sdraiata su una panchina tra cumulinembi a folate e freddo mordace; la vetrata oltre me prometteva sorrisi, caffè e carta sottolineata, giochi di carte e quell’odore tipico di uno stanzone sovrappopolato.

Ero sola là fuori, prima goccioloni poi pioggia, a implorare quel cielo di non cadermi in testa. Nelle orecchie fluiva Alice, ális, alìs come uragano che sfigura il mondo, alìs spirito cupo che sbrana case e abbuia pianeti, alìs da farci stringere l’un l’altro finché alìs non se ne va. Alìs percorre oceani  interdetti, alìs abbraccia anime e raccolti, alìs cui è gradito l’uomo, alìs che porta, invisa, catastrofi e incolore. Tutto sbiadisce nella morsa di alìs, alìs che chiede ancora umanità.

Chissà come sembravo, a quegli studenti. Mi sentivo matta, nascondevo in tasca una follia che a ogni nota Alice smascherava.

Cercavo alìs, cantavo alìs così forte, nella mente, che qualcosa sarà pur trapelato. Volevo dirle non sei sola, insieme soffriremo meno. Credo si sia accorta di me, alìs.

Finita l’estasi rientravo in aula, desnuda dentro ed esposta nei miei gesti.

A ripensarci gli altri m’ignoravano, presi come siamo a schivare indifferenze che scambiamo per giudizi. E la palla che invecchiando si migliora non regge: per quanto mi metta alla prova, certe paure persistono.

– Ti sentirai sempre inadeguata, a ragionare così.

–  C’è poco da ragionare, nasco outsider e tale resto. Poco cambia che sia per ceto, aspetto, prospettive o auspici. Ma ora va meglio.

– Te ne freghi?

– No, ma l’incertezza è più leggera.

– Cioè?

– La mia prof pretendeva cinquanta lire per ogni “cioè” che dicevamo in classe.

– Pace, fammi un esempio.

– Ora mi sento fuoriposto per cavolate, che so, per l’età: sono a disagio con le Converse e i jeans strappati, o se faccio ciao ciao con la mano. Eppure capita d’incontrare vecchiette che salutano così, si sbracciano come facevano da bambine, e sono stupende. Allora compenso con cose da grandi, magari con un taglio di capelli…

– Ah, volevo dirtelo, come ti sei conciata…

– Non me ne risparmi, eh? Capelli lunghi e look sbarazzino attiravano le attenzioni e la delusione di ragazzi…

– Lo ripete mia mamma: “Dietro liceo e davanti museo”.

– Va’ a fare qualcosa, va’!

Anch’io riprendo a scrivere, ho giusto un raccontino su una fresca, spigliata, sfortunata anziana che…

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Io mi arrendo

27 domenica Set 2020

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aspirante scrittore, autunno, chiostro, clessidra, esordiente, imperia, libri, monaci, scrittura, Topolino, wishlist, writing

Mattino smunto nel cantuccio di Piemonte che mi ospita da due anni, spiove nebbia e il cielo è di un grigio appiccicaticcio che nasconde montagne solide, lo detesto. Pioggia e fresco laborioso, settembre inoltrato infonde coraggio e progettualità anche a chi, come me, è più guardingo. 

Farò programmi e avrò un autunno, forse meno governabile dei precedenti ma in fondo sono gli imprevisti a forgiare le giornate. Quest’anno ancor più inutile – se mai abbia avuto senso – sì, inutile volere tutto sotto un controllo, beffare se stessi tracciando agende o calendari: priorità ed eventi resteranno vivi solo su carta, se il destino siederà di traverso.

Eppure mi ostino a imbottigliare la vita in una botte mai ebbra, ore anziché litri, e a tapparla ottimista per conservare ogni voce senza farla scappare, un po’ come Ursula nella Sirenetta Disney. Non mi accorgo, giorno a giorno, che l’alcol evapora, l’ossigeno altera, e ritrovo un contenuto che non è più lo stesso.

Uguale quando scrivo, devo aver già immaginato tutto. Settimane a progettare e pianificare e pazienza se per qualcuno è deplorevole o uccide la creatività, non so fare altro neanche per accelerare; sentirei di nuotare a riva. Ma la stesura non va mai come ho stabilito, basta un concetto a stravolgere la costruzione che l’ha preceduto e la pattumiera guadagna pagine a palate.

Amo documentarmi, raccogliere informazioni che chissà se mai userò, accarezzare migliaia di fogli che contribuiranno a scrivere poche righe e a volte neanche quelle.

Ho un sogno, temo poco originale ma lo inseguo da che io ricordi: sigillarmi per mesi in una biblioteca solo mia. Porterei scorte d’acqua e viveri, quaderni a righe fuori misura, penne nere blu rosse Pilot BP-S fine (col cappuccio e non a click, le stesse dai tempi delle medie), biancheria e jeans e maglie scure. E trenta pezzi della mia musica preferita, classica punk rock pop metal rap etnica e via dicendo – tutto tranne il jazz, che trasforma la mia ignoranza in frustrazione ma prima o poi rimedio. Metterei a oltranza un brano al giorno, tutto il giorno per un mese di fila e poi si ricomincia, un solo motivo fino a consumarne ogni sfumatura emotiva.

Un’unica sala con libri alle pareti fino al soffitto, organizzati da una mente superiore e a me benevola: per lo più testi che possano piacermi, servirmi o influenzarmi, un angolino di pinzillacchere consolatorie e qualche tomo antico a profumare l’aria. Tre tavolate massicce e lampadari a paralume, uno scrittoio Luigi Filippo (questo l’ho cercato su internet, non me ne intendo) affacciato sui romanzi ottocenteschi e il letto, essenziale, in una nicchia a parte. Un bagnetto con doccia e una cucina senza pretese, bon.

Fuori dalla biblioteca vorrei un chiostro da condividere con una piccola comunità di monaci, magari il chiostro di San Matteo a Genova, quello dell’Abbazia di Staffarda o della Certosa di Pesio, che con la neve è il mio rifugio. Ma basterebbero anche i resti di una chiesa sconsacrata, il cortile porticato di una cascina in disuso o le fondamenta di un edificio demolito, insomma un tracciato che accompagni il fluire dei miei pensieri.

Quando attraverso la fase acuta della scrittura, i monaci per me rappresentano un modello di organizzazione: mi alzo alle 5.20 e seguo una tabella che riprende la loro suddivisione della giornata, alternando lavoro manuale e intellettuale, ed emulo il rigore dei loro passi fino alle 21, ora in cui mi corico soddisfatta.

– Ecco che abbiamo la monaca di Mon…

– Silenzio, non adesso! Dicevo…

Il percorso che il chiostro offre è vitale per fantasticare.

Quando vivevo a Imperia percorrevo tutte le mattine lo stesso tragitto, schivando scelte e divagazioni: da Piazza Roma scendevo lungo via XX Settembre, noncurante degli ambulanti il giovedì o dei contadini il martedì, delle ciarle da bar e degli effluvi da panetteria.

Tiravo dritta fino al Duomo e mi arrampicavo al Parasio, così simile alla mia Genova. Oratorio di San Pietro che spia il Monte Calvario, mare mare per le Logge delle clarisse, crêuze ripide che se non stai attento ruzzoli cosce all’aria e passeggiata a strapiombo fino agli anziani che giocano a Cirulla in piazzetta.

 Ancora: passi svelti per Borgo Marina e i suoi fari, dondolio incantatore dei natanti e strilla dei pescatori che annodano le reti; ultimo sforzo ed ecco casa.

Non ho mai dato per scontato i posti in cui ho vissuto, ma ora che sono lontana apprezzo di più quelle passeggiate, aggiungevano pezzi alle mie storie: era come guardare un film, poi rientrare e riassumerne trama e personaggi. A volte mi sembrava di plagiare il lavoro altrui, tanta era la precisione con cui i racconti si delineavano in me.

Dal trasferimento non ho ancora trovato un percorso simile, né un mio ritmo di scrittura costante. Sarà perché camminare col freddo è faticoso, perché non conosco le zone e mi distraggo o perché ho paura di cimici e altri insetti che qui abbondano.

Così mi sono organizzata in soggiorno, dispongo a terra vecchi numeri di Topolino a formare un grosso rettangolo – lo facevo anche da piccola per delimitare la casetta immaginaria, mi sentivo invisibile come quando piove – e seguo il…  

– Conosco un bravo psicologo.

– Basta, mi distrai.

Seguo il tracciato esterno del quadrilatero di giornalini, tra i monaci apparenti che riflettono senza badare a me. Circumnavigo il chiostro finché non germoglia l’idea, e cresce, e rotola come balla di fieno.

Insomma, quando i sogni non si realizzano bisogna darsi un’alternativa. La mia scrivania si trasforma nello scrittoio silente della biblioteca, gli operai che alternano pausa e lavoro sulle impalcature diventano religiosi che seguono la rigida regola del loro Ordine, stampanti e traffico si arrendono a un muto brusio.

Solo così porterò avanti i miei progetti senza affibbiare colpe, sistemerò la traccia del romanzo che vorrei scrivere (incompleta, incoerente e troppo lunga per risultare utile) e butterò giù due raccontini che ho in mente.

Ma un autunno non è autunno senza una wishlist di libri. Data l’incertezza del periodo, preferisco muovermi a breve termine e segnare giusto qualche titolo per ottobre (chiedo scusa a Haruki Murakami, a John Williams e a tutti gli autori che ho illuso, recupereremo a novembre):

# Mentre morivo di William Faulkner.

# L’ultimo inverno di Rasputin di Dmitrij Miropol’skij.

# Nikolaj Gogol’ di Vladimir Nabokov.

# Cinque racconti di Ambrose Bierce.

# Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio di Remo Rapini.

# Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli.

# Codici & segreti di Simon Singh.

– Tra i fioretti non dimenticare di mettere il piumone al letto, o quest’autunno altro che sogni…!

Stavolta ha ragione, piumone al letto e scorta di tè e dolcetti alle mandorle. Ma soprattutto devo recuperare la mia instancabile clessidra da un’ora, che non concede una seconda possibilità neanche a se stessa.

Scrivi mi dice, scrivi mi canta, scrivi sussurra, scrivi bisbiglia ogni granello che pascoli.

E io mi arrendo.

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Sognando Hitchcock

23 domenica Ago 2020

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Tag

aspiranti scrittori, disciplina, esordiente, gatti, Hitchcock, immagina, libri, racconti, scrittura, writing

cortile bis

Abito da poco in questo palazzo tra i palazzi, uno scorcio di mare pagato a suon di privacy e tafferugli h24 giù al supermercato.

Ma sono felice qui, mi sento a casa.

Stamattina scoppiettano i tuoni. Cauti, tenaci, sono già pioggia per il meteo online. Resterei volentieri a letto, se non premessero le commissioni.

Fa un odore diverso il mare, quando tira burrasca. Sa di case estive in chiusura, di sole reso innocuo, di autoctoni che fanno capolino, di galletti segnatempo alla Mary Poppins, di saluti a lungo termine e di zanzare spiaccicate ai muri. È un’aria carica di ultimi gelati, di palme ancheggianti, di valigie panciute, di compiti delle vacanze e progetti a maniche lunghe, di cancelleria e diari da annusare.

Rivedo la vecchia sala giochi di Chiavari, il veggente meccanico che prediceva il futuro prima di ogni partenza: due spiccioli nella feritoia, la mano offerta per pochi secondi, scricchiolii tipo estrazione del lotto e poi usciva l’oracolo, un foglietto abbastanza criptico da accontentare chiunque.

La fine dell’estate rievoca il commiato dalla basilica dei Fieschi, la sua pietra massiccia e memorabile che isola dalle interferenze e rende pensiero il mondo.

La fine di tante estati portava scadenze e copioni da ultimare, studi di doppiaggio in riapertura, piccoli vantaggi sulla programmazione e fluenti ritorni in città.

Oggi è lontano l’autunno, i tuoni cederanno a un nuovo sole infuriato e nessuno sa, quest’anno, se ricomincerà davvero, il nostro settembre operoso.

Non mi sono ancora familiari le tante persone che abitano nel casermone davanti.

Fisso un vecchio che vedrei vestito come tutti i vecchi, camiciola chiara con occhiali da taschino o forse polo, magari a righe e bisunta. Porta canuto una canottiera rossa, spalle e muscoli lo camuffano da giovane. Nove del mattino, sul balconetto al terzo piano ritira, allarga, piega e impila panni asciutti. Prende dalla borsa frigo due mollette per volta e stende i capi appena lavati, tira giù le tende da esterno e sparisce veloce dietro la zanzariera. Scapolo, divorziato o vedovo, saranno anni che si aggiusta da solo.

Al quarto piano vivono una ragazza e il compagno: carina e rassicurante lei, sensuale e consapevole lui. Il balcone fa angolo, si sporgono dalla mia parte soprattutto per allargare, ancora in costume, gli asciugamani da mare sulla ringhiera. Lui dimena le ciocche quasi a compiacere un pubblico. Lei fa gesti asciutti e nervosi.

La signora del secondo piano lato mare ha un grande terrazzo e vasi da fare invidia a un orto botanico. Sotto il tendone a righe verdi raccoglie statuine e girandole, anfore e ninnoli accuditi come creature. Le tapparelle restano basse, la signora dai riccioli daino tarda a mostrarsi. Eppure è facile immaginarla a riordinare pulire lavare preparare accarezzare quella casa che rappresenta la sua vita.

Il palazzo di fronte è così grande da avere due ingressi separati. Il vecchio col fisicaccio e i due fidanzatini vivono lato monti, forse neanche conoscono la donna daino, se non di vista.

Peccato.

Si potrebbero organizzare appuntamenti alla cieca per condomini soli.

Che pena l’anziano che abita sopra l’orto botanico, non l’avevo mai notato: lui sì che ha una canottiera da ospizio, di quelle bianche e logore a costine. Fissa malinconico il mare, sugli occhi i ciuffi sopravvissuti al lockdown.

– Guarda bene: quel tizio non è solo.

Gli si avvicina una giovane caraibica, una statua a chioma libera. Risate rimbombano tra il cemento: la ragazza civetta in posizioni meno che convenienti; l’omuncolo a costine, concreto, arraffa più che può. Se è la badante, non lo rimarrà a lungo.

Sto facendo colazione, mela biscotti e caffè.

Ciccio litiga col barboncino al di là del vetro divisorio, non scavalca perché sa che lo guardo. Ciccina lo ignora. Alcuni dirimpettai si sono lamentati per il continuo abbaiare dei cani nella nostra palazzina. Mi sento responsabile, i Cicci hanno risvegliato l’ugola di tre o quattro cagnetti da appartamento.

– Cosa te ne frega?

– In effetti i miei gatti non abbaiano. E poi a me non dà fastidio la voce degli animali, fa natura.

Adesso ho i personaggi da plasmare, mancano le risposte.

Questa domenica, chi di loro lavorerà?

Chi passerà una splendida giornata?

Chi farà una scoperta sconvolgente?

Chi ricorderà questi momenti per tutta la vita?

Chi si riterrà il più soddisfatto?

– Vuoi davvero perdere tempo dietro ai tizi che abitano là?

– Non si perde mai tempo, a fantasticare. E poi… è così che nascono le avventure, no?

Hitchcock insegna.

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