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Solitudini bastate…

15 lunedì Ago 2022

Posted by scribastonato in Reveries

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Tag

aspirante scrittore, brioche, esordiente, Ferragosto, max gazzè, musica, Natale, racconti, scrittura, scrivere, writing

(per dirla con Max Gazzè)

La solitudine arriva presto, pezzo a pezzetto, e con te rimane. Arriva senza che te ne accorga e non se ne va mentre sorridi, quando a Natale vi abbracciate a tavola, se al Ferragosto sole in terrazza e gavettoni tutti, tutti voi che ve ne state insieme. Poi passa l’anno, torna un altro Ferragosto e… manca una persona.

– Una sola, che sarà mai.

– Sarà eccome.

A Natale ne mancano due, di convitati, tra chi cresce e chi se ne va più gatti vari che scappano o muoiono, e tu sei lì a guardare chi hai, e la casa che sembra comunque piena di un giorno festoso; qualche mese dopo sei un’altra volta a crudo e melone nel dehor sul mare più arachidi e Gin Tonic che si fa uno strappo alla dieta, se oggi siamo tutti insieme.

La solitudine è ancora lì, in quei momenti è con te che proprio non lo capisci e allora procedi campione, va’ avanti e conquista; finché a un certo punto. Si fa toccare. La tocchi. È fredda, la solitudine. È fredda anche a Ferragosto, quando il sole scalda che sembra cuocere e vai al bar solito che tutti trascurano per la nuova croissanteria fighetta che ha aperto all’angolo. E sei in coda, una coda che non ti aspettavi lì, al bar di solito vuoto, una coda calda in questa feria d’agosto insieme agli altri estranei, a tutti gli altri che sorridono in fila e pregustano la loro calda giornata di festa.

Ma poi. Scambio di sguardi col vecchio che ha un tocco di focaccia, lo tiene come le paste per sua moglie e i figli quando sua moglie c’era e lui interessava ai figli, quando comprava cavolini e bignè mi dia soprattutto quelli alla crema e aspettava fuori da messa col sorriso e i dolci in grembo, e ignorava il rimprovero di lei dacché non era entrato in chiesa, e rincasavano con passo da domenica a mangiare il buono che era già pronto all’alba. Ora ti guarda lui, il vecchierello dalla polo a righe e macchie, ti guarda con quel suo cane ignaro e ti fa capire che lui invece sa, sa quel che viene e sa che ci sei anche tu lì dentro, vi riconoscete nella solitudine della vostra festicciola sobria.

Esci con un groppo allo sterno, proprio sotto la gola, un magone al petto che ti mangia dentro, così tanto che non senti più fame: prendi la tua brioche al cioccolato nella carta spessa che non unge e ti avvicini al cesto della spazzatura, ché tanto la solitudine sazia. Devi cercare di fartela compagna, quella. Tempo ne hai, hai ancora anni, ora che sai di averla al tuo fianco. E devi ammansirla devi, perché se no la solitudine fa male, arriva a un punto che diventa brutta, così di colpo, e non ti dà tregua. Se la coltivi, invece, un po’ ti è amica: o la prendi con te, la solitudine, o entra a forza e poi ti espugna e sbrana.

Vorresti buttarla, quella dannata brioche, sbatterla sul fondo del cestino e schiacciarla bene col pugno ma non lo fai, tuo malgrado non lo fai perché il cestino è pieno e la brioche non ci starebbe e ancora non lo fai, se no finisce la tua parvenza di Ferragosto e la solitudine diventa vera.

Poi l’inverosimile, se succedesse in un libro o alla tivù non ci crederesti: cade la brioche al cioccolato, cade e pensi non è atterrata male, tanto è protetta dalla carta. Ti chini, la afferri, la osservi e però il sacchetto è a rovescio, la brioche sguscia e cade sull’asfalto del marciapiede. La raccogli subito e pensi sono passati meno di cinque secondi, se soffio posso mangiarla e non succede niente ma poi guardi a terra, tra chiazze di pisciata e piume e cicche e altro, no non si può, che schifo. E subito la solitudine ti è appollaiata in spalla.

Intanto è cambiato davvero il tempo, come era scritto in agenda. Piove forte e ristora, ma qualcuno no. No chi è in guerra, no chi quattro anni fa attraversava il ponte. No chi vuole tornare col culo in spiaggia, oggi, in attesa che arrivi il suo turno.

– Il turno di cosa, per comprare le brioche?

– Ma no, che dici, il turno per… lascia perdere, buon Ferragosto.

…a farsi da mangiare. (Per chiudere con Max Gazzè)

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Quasi sempre

27 venerdì Nov 2020

Posted by scribastonato in writing

≈ 14 commenti

Tag

aspirante scrittore, musica, poesia, racconti, romanzo, saiyuki, scrivere, son goku, writing

Ho letto un post che mi ha toccato il fondo,

un thread audace e senza freni intorno,

metteva il cosa, di per sé già ardito,

in una forma che non regge filtri.

Ricordo il modo in cui scrivevo un tempo,

cui mi abbandono s’entra in me il sonoro,

musa potente, musica m’assorbe,

mi sbrana l’anima e si risputa fuori.

Ho così il pezzo, il brano o il testo pronto,

ma perdo spigoli del mio equilibrio dentro.

Sia festa prodiga di luci e sguardi liberi,

se canta il diavolo finisce a stupro e vomito.

L’amore tenero, sessuato o forse impavido,

si scopre torbido, quando a calare è il ritmo.

Per questo spesso mi tengo alla larga dalla musica, da certa musica che risveglia la sintassi peggiore di me. Ma non è solo una questione di forma. A volte a spaventarmi è il viaggio che mi aspetta, il posto che visiterò per scrivere, il cammino da percorrere.

Finché uno entra in casa propria, magari nell’appartamento in cui abitava felice da piccolo, è un conto. Ma affrontare spauracchi di un passato che genera bestioni su bestioni richiede coraggio. E la musica non sempre viaggia dalla parte dell’eroe, non sai in anticipo quali ricordi o esperienze amplificherà, potenzia ma ha effetti collaterali che uccidono.

Ci sono epoche che fanno paura e posti che feriscono, non serve musica ad amplificare. Il kinderheim dove trascorrevo l’infanzia estiva, certe serate a casa dei miei, il cimitero delle ampolle umane dove Astolfo cercherebbe di nuovo il senno altrui.

Per scrivere bisogna osare, penetrare certi edifici, esplorarli, allontanare mani e braccia da sé per frugare ciò che non si vorrebbe neppure sfiorare.

La mattina, quando esco, qualcuno mi chiede:

– Dove vai oggi?

Nell’appartamento di mio nonno, al parco del Valentino, nella biblioteca della vecchia scuola, al castello di Fenis, a lezione dal prof di fisica del liceo, a trovare il parroco di F., nella casa del boia, la risposta cambia a seconda di quel che voglio immaginare.

Prendo l’auto, accompagno chi va a scuola e mi dirigo verso l’ufficetto che mi aspetta. So quasi sempre cosa scriverò quel giorno, soprattutto se mi sto dedicando a una storia lunga. A volte ascolto una canzone preparatoria, qualcosa che porti le emozioni dove devono andare senza domarmi l’anima. Spengo la musica – non interrompo mai un pezzo, – pago il parcheggio se non c’è gratuito, lascio il tagliandino sul cruscotto, apro il portone dalla serratura difettosa e mi ritrovo nel loft zitto e in penombra. Sveglio luci, computer, macchinetta del caffè,  sposto sedie, prendo penne fogli dizionari appunti e comincio. Entro dove so, i miei occhi guardano intorno ma non ho solo un visore a trecentossessantagradi, anche le mie braccia sono lì, le mie gambe, io stessa sono presente. E vedo quello che è successo, spesso non proprio come è successo, e sto bene, sto male, vorrei ridere piangere scappare ma resto lì, a osservare quelle scene che presto potrò raccontare. Perché senza musica posso anche tornare indietro.

Per anni la mia scrittura non ha avuto filtri, è stata incondizionata e in balìa di quel lato selvaggio, notturno, famelico e cannibale che spaventa tanto, prima me e poi tutti gli altri. Mi svegliavo la notte in sovraccarico di emozioni, sono piena di quei testi febbricitanti. Poi ho spento la musica per una decade. Quando l’ho riaccesa avevo addosso come un sigillo invisibile, un piccolo dispositivo che controllo a mio piacere con una certa facilità. E la mia scrittura si è fatta misurata. Per qualcuno è anche troppo controllata, lo sforzo traspare.

Vivo lo stesso, sento, immagino, soffro e scrivo, ma respiro la notte anche quando non dormo. Ogni tanto devo sciogliere il sigillo, decido io.

Ho salvato me a discapito della scrittura. Ho rinunciato a distruggermi, a diventare musica, a carezzare la follia, a ingollare eccessi, anche se il mio spirito consumato si sente ormai vecchio. So che il mio demone feroce resta in agguato, però ho scelto di darmi tregua.

La mia scrittura non diventerà mai quella che sarebbe stata se mi fossi immolata alla creatività, ma meglio non rischiare: a volte la natura si beffa di noi, instilla in un vago scribacchino l’urgenza del Sommo Vate.

Leggo i quaderni passati, erano più forti; e non è per l’età o lo scorrere del tempo, a sedare è proprio quel sigillo che fatico sempre meno a sopportare, purtroppo.

Ripenso a un manga (e successivo anime) di cui ho curato l’edizione italiana per Dynit, Saiyuki di Kazuya Minekura. Basato sul romanzo cinese Viaggio in Occidente – ispirato alla leggenda dello scimmiotto di pietra Sun Wukong (si pensi a Dragonball, al più recente The new legends of Monkey di Netflix e ai vari adattamenti per videogiochi) – il fumetto parla del viaggio verso ovest compiuto da quattro personaggi (meravigliosi!) per cercare i sacri sutra che serviranno a fermare la resurrezione del re dei demoni.

Tra questi viaggiatori c’è anche Son Goku, il più giovane del gruppo, la trasfigurazione dello scimmiotto immortale rimasto imprigionato per cinquecento anni sul monte Gogyo (il monte dei Cinque Elementi) e poi liberato. Son Goku porta sul capo un diadema, un dispositivo di controllo, e quando lo perde si trasforma nel Seiten Taisei, “il grande santo pari al cielo”, una creatura invincibile e animalesca che libera i suoi poteri demoniaci perdendo il controllo di se stesso.

Ecco, la musica mi trasforma nel Seiten Taisei.

E quando il grigio si spiccica dalla pianura e la foschia evapora, lontana la cima del Monviso si fa inarrivabile, una montagna sacra spezzata dalle nubi, la tana di creature potenti, divinità assorte e demoni rabbiosi, e magari dello stesso Goku.

Ho la sensazione che se togliessi il sigillo, l’umanità mi relegherebbe lassù per cinquecento anni e oltre, e nella notte sarebbe terribile convivere coi miei mostri, più spaventosi dei lupi che popolano queste zone.

Ma per fortuna controllo la musica e domino la scrittura. Quasi sempre.

Scritto da Scribastonato il 27/11/2020

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Viaggio con Tolstoj

13 martedì Ott 2020

Posted by scribastonato in Travelling

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Tag

aspirante scrittore, Bulgaria, esordiente, Pessoa, poesia, romanzo, scrittura, scrivere, Tolstoj, Travelling, viaggiare, viaggio, writing, Yasna

Photo by Plamen Agov – studiolemontree.com – CC BY-SA 3.0

La settimana scorsa ho conosciuto una coppia insolita. Nelle loro torrette arroccate su un’altura impervia niente tv né social, internet solo per servizio e cibo a chilometri dieci; quei due non fumano non eccedono si divertono q.b., leggono suonano e padroneggiano cinque lingue l’uno.

Lui, geologo girovago per professione, ha diretto gestito orientato e incaricato fino al logoramento; ora obbedisce a lei sola, a un ingegnere di testa e di talento che l’ha investito della gerenza domestica.

Smarrita in un distanziamento boschivo reso surreale da sedili diffusi, tra un bignè e una slerfa de fugassa ho apprezzato gli spunti al femminile sulla sicurezza nei cantieri e le avventure fiabesche del geologo ammaliatore.

Si sofferma sulla Georgia lui, intervallandosi con domande di cultura generica che pungerebbero, se non intercedesse la compagna suggeritrice. Georgia e tradizioni che a me, non glielo dico, ricordano la Sardegna di qualche decennio fa; Georgia tra Caucaso e Mar Nero, dove le donne comandano purché non si sappia in giro; Georgia e innovazione, spiega, senza la paura nostrana d’ipotecare il tempo.

Ascolto estasiata finché non si blocca a redarguire me, proprio me che non do adito:

– Vorrei, vorrei non fai che ripetere, vorresti andare ovunque. Perché non scegli un posto e parti?

Sterminati attimi d’angoscia e bofonchio:

– Non tutti hanno la fortuna di viaggiare per lavoro, anche sognare è un po’ partire.

Da sognare in poi non dev’essersi capito un granché, tanto ho bisbigliato.

Ma è bastato, lui scalpita pronto al galoppo. Lei gli stringe la cavezza:

– Sono d’accordo, desiderare ci avvicina a possedere. Tra figli e impegni non è facile spostarsi. Quando sarai più libera, recupererai.

Amen. Non l’ha convinto, se si è accanito sul pecorino ai gelsi mulinando occhi ancora accesi. A fauci di nuovo vuote, ha ripreso la carica:

–  Se potessi partire oggi, dove andresti?

– Te l’ho detto, sono tanti i posti che prima o poi…

– Scegline uno e bon, troppi progetti sono zero successi.

Credo gli sia arrivato un calcio sotto il tavolo, e lei ha chiuso il discorso:

– Non lo dice certo a uno zotico come te, –  mi ha fatto l’occhiolino e ha cambiato argomento.

Un gran bel pomeriggio senza altri intoppi, ma due pensieri hanno preso a rimbalzare nel flipper della mia testa:

1 – Troppi progetti sono zero successi.

Forse il geologo ha ragione, anche per scrivere devo eliminare il resto. Ha battuto e ribattuto sulla programmazione a lungo termine: scegli un progetto, guardalo nascere ma immaginalo tra cinque anni, non lesinare sul tempo. Se poi non è destino i giorni e le settimane si contrarranno da sé, si dilateranno, spariranno. Tu intanto osa. E resta fedele a quella sola idea, che gli altri corrano pure dietro a mille gonnelle.

2 – Se potessi partire oggi, dove andresti?

Cercherei un posto al quale appartenere. Per sentirmi a casa, tra chi prova e pensa come me, senza brama di scappare ancora, la finestra aperta a respirare un cielo che accomuna. Invece niente mura a proteggermi, nessun paese si carica della mia pena; quando cade il buio, non c’è colonia umana a comprendermi.

Ricordo una frase di Pessoa, o forse non la ricordo così bene se non esce neppure su internet. Dovrei controllare i volumi nella libreria, scaffale in alto a destra; no, lascio perdere. La frase recita: “Vorrei essere ogni uomo in ogni luogo”. Ecco dove andrei, oggi: ovunque e nei panni di chiunque. Infiniti modi di essere e di vivere.

Ma resto sempre a qualche passo di distanza, e l’altro, qualunque altro, lo percepisce.

Lo so, sto barando, il geologo peregrino non intendeva questo.

Parto per un viaggio, uno solo. Non so scegliere. Mi affido per la prima volta a Google Earth, pare sia meglio di Maps. Schiaccio a caso, un mappamondo 3d piroetta sul monitor. Clicco ancora e la Terra smette di girare, due clic e s’ingrandisce. Che figata, senso orario, antiorario, su e giù, again and again.

Mi do tre possibilità, due le scarto e una è mia. Sembra la Ruota della Fortuna, chissà dove finirò. Zoom e si legge qualche nome, villaggi dal doppio carattere occidentale e arabo. Allargo allargo allargo, sono in Ciad: Zouar, Iriba, Adré, Kaouda, piccoli agglomerati nel deserto di case basse e recintate; ancora giù per altipiani e savane, Mongo, Abou Deia, Sarh, Bokoro, Mao fino al lago Ciad, quindi raggiungo la capitale N’Djamena, sul fiume Chari. Neanche a N’Djamena funziona lo Street View, qualche foto di una città recente e polverosa, cambio aria.

Giro ancora la ruota, giro giro e poi fermo il mondo. Firenze?! Non mi sembra il caso, la conosco abbastanza. Ultima chance: gioco la carta ”mi sento fortunato”, Google Earth sceglierà per me.

Vado, vado… ma come, in Bulgaria?! Sognavo la Norvegia, Berlino, Tokyo!

– E perché non ci sei andata?

– Non t’impicciare, confidavo nella sorte. Però in effetti… perché non ho scelto io? Sempre la solita storia: lascio che gli eventi seguano il loro corso e poi mi lamento; forse se avessi…

– Comunque in Bulgaria si mangia bene. Ho visto una trasmissione, fanno un kebab buono buono e gli involtini col formaggio sono invitanti, e poi la polenta…

– Va bene dai, vediamola questa Bulgaria. Fossi almeno capitata nella bella Sofia, o a Plovdiv, tra moschee e anfiteatri romani. Niente, sono a Svilengrad, giù giù al confine con Grecia e Turchia, in pratica un casino. È un posto tristemente noto perché da qui passano i profughi siriani che risalgono dalla Turchia, vengono raccolti col loro fardello, tanto dolore e poca fiducia, nei centri di smistamento in zona. Faccio un giro, ricordo immagini televisive, ho un groppo in gola, piango.

Se le scritte in alfabeto cirillico inquietano, lo STOP rivela cartelli stradali leggibili, procedo più spavalda. Cambio quartiere, supero una scuola, raggiungo uno dei peggiori hinterland mai visti – e dire che io nasco come randagio di periferia, –  degrado che sgretola prefabbricati, cortine e radar parabolici. Ma a incupire è la ruggine che cola, ruggine sorella di miseria e incuria. Un cane fulvo fissa l’obiettivo Google, supplica portatemi via. Gli alberi sono secchi e non c’entra l’autunno. Mancano asfalto, pattumiere e auto.

Esco miserere dal sobborgo, cuore sospeso e silenzio scialbo, saluto con conforto un minimarket. Earth non va oltre, dietrofront, di nuovo lo scempio. Rivedo ruggine, muri scorticati, balconi in gabbia, sbarre divelte. Frontiera di fatto, ricomincia l’asfalto con aiuole e villette, cancellate e giardini. Tinte vive, perfino il cielo – bontà di Google – ha cambiato umore. Nel parco giochi siepi potate, lanterne a boccia, bidoni gialli, plotoni di panchine. Tutto è pulito e riluce, viene il magone se penso a dietro l’angolo.

Dov’è il sindaco, che gliene dico quattro?

Costeggio la Mariza che scorre algida, chiedo a un tizio dal buon inglese: benvenuta a Svilengrad, visita il Ponte Vecchio. Annuisco finché non mi indica il municipio.

Eccolo, coi lampioncini che manco il Café de Paris a Montecarlo, solo che l’edificio è basso. Il sindaco mi riceve quando minaccio rimostranze al console, ma non capisce il mio parlato – finge? – e mi liquida con due bazzecole.

Zdravej ciao, Kolko struva? quanto costa? – è quanto imparo in poche ore.

M’intriga questa Bulgaria, ne percepisco il richiamo. Raggiungo il Mar Nero, distretto di Burgas, è qui che intendo muovermi.

I personaggi prendono voce, si tratteggiano prudenti i volti. Le vie di Nesebar fanno un po’ vacanza, a Tsarevo dormo sulla spiaggia. Ora anch’io ho un posto che mi vuole, è quel villaggio che blandì Tolstoj legando il nome allo scrittore russo, merita indagini. Mi fermerò per qualche mese o anno, resterò ospite di Varvara e Pavel.

Solo lì vorrei andare, risponderei oggi al geologo.

– Se va bene quello se n’è già sparito in Adzerbaijan.

– Buon per lui, avremo tanto da raccontarci al rientro.

Intanto parto per Yasna Polyana, e stavolta viaggio con Tolstoj.

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Sì, viaggiare

16 domenica Ago 2020

Posted by scribastonato in Travelling

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Tag

esordiente, libri, racconti, romanzi, scrittura, scrivere, Travel, writing

casa neve

Ferragosto. Due passi in maschera a scantonare la folla ed è già noia. Ringrazio di non avere sedici anni (i nostri ragazzi sono da medaglia d’oro), non sarei sopravvissuta alla reclusione in famiglia, meglio pescare la carta Imprevisti. O forse mi sarei arresa – pur preferendo un ergastolo a Marassi – e mi sarei riavvolta intorno a libri e musica. Avrei fantasticato di posti così lontani che manco Jack London ne Il vagabondo delle stelle.

Del resto Salgari non viaggiò mai. Non, almeno, come ci si aspetterebbe dai suoi scritti. Idem per Jules Verne. Poco importa se i loro romanzi raccontano di viaggi memorabili verso terre a metà tra il fantastico e la geografia.

Prima di diventare scrittore, Kent Haruf ha svolto diversi lavori e ha viaggiato un bel po’. Poi si è fermato e ha inventato la cittadina di  Holt, ispirata a tanto Colorado e soprattutto a Yuma.

Neanche Stephen King ha fatto chissà quanta strada, se pensiamo a tutto il Maine che c’è nei suoi libri.

Il romanzo che ho scritto è ambientato in un paese immaginario – d’ispirazione sarda – collocato su un’isola vulcanica a vocazione fortemente sismica. L’ispirazione sarda è evidente nella connotazione realistico-rurale e nell’atmosfera magico-arcaica del paese, ma l’isola NON è la Sardegna.

In una scheda di valutazione ho letto: “Nella sinossi afferma d’ispirarsi alla Sardegna, eppure la Sardegna non è sismica né vulcanica”. Davvero? Me lo giurate?!

Va bene, mi sono spiegata male o sono stata fraintesa. Si cambia. Scriverò un racconto ispirato a un bel niente, o meglio, a niente che io conosca o che possa conoscere chi leggerà la sinossi. Sceglierò un’atmosfera inusuale e ne respirerò l’aria su Google Maps o Wikipedia.

Per il mio esperimento, partirò da una zona sperduta della Russia.

Digito “Russia” su Google Maps. Zoom fino a ingigantire la parola Surinda (carattere occidentale e cirillico, da qui in avanti scritto con una”g” in più). Alle 4.03 clima parzialmente nuvoloso, con una temperatura di 16 gradi. L’omino giallo dello Street View non collabora, il satellite offre marrone e verde per chissà quanti chilometri, poi un coagulo di tetti rossi blu verdi, forse capannoni, simili alle macchine di un concessionario di usato. Quest’informazione tornerà utile.

A poca distanza scorre un fiume che sulla carta sembra ben lungo, il Reka (che significa appunto fiume) Suringda (da qualche parte a nord c’è anche un lago Suringda, uno dei 19338 laghi della Russia). Risalgo fino alla sorgente senza incrociare una casa. Mi arrendo all’approfondimento online: pochi siti bonariamente tradotti dal russo m’informano che sono nella taiga, in una terra foraggera adibita al pascolo stagionale delle renne domestiche. Non male un racconto sulla vita del giovane Irkuk, il pastore di Suringda che abbandona sulla riva le renne di famiglia per lavorare come impiegato in un concessionario di trattori stradali.

Il fiume biforca più e più volte: resto a sinistra per mantenere l’orientamento. Quando l’acqua si fa meno chiassosa, compare un piccolo, curioso centro urbano. Street View dorme ancora ma le mappe indicano un albergo, il Podkova, nel territorio di Krasnojarsk. Quattro recensioni miserrime su Tripadvisor e zero foto, meglio lasciar perdere. Seguo il Suringda finché non s’immette nel Reka Nera.

Costeggio questo nuovo fiume lungo miriadi di anse imbiancate, fino al paese di Tokma (casupole sbilenche e staccionate a protezione di alberi da Natale). Più avanti c’è una scuolina verde che mi fa venire in mente il film Non uno di meno del cinese Zhang Yimou.

Proseguo lungo il fiume Nera (anche chiamato Hera, giusto per non confondere le idee), ghiacciato, pixelato e attorcigliato da fare invidia all’intestino tenue. Alla foce sorge Ust’Nera – 8000 abitanti dispersi tra le nebbie pungenti – definita da Wikipedia una delle cittadine più fredde al mondo, con picchi di – 60°C. Il museo mantiene vivo il ricordo dei gulag che hanno infamato la regione. Trovo un posto per dormire, il Gostevoy Dom ha perfino cucina a gas e lavatrice. Una sola domanda: cosa viene a fare uno dei miei personaggi qui a Ust’Nera?

– Scappa dai debitori?

– Di solito ci si nasconde nei posti caldi.

– Ha una malattia rara?

– Quale morbo costringerebbe un uomo a vivere fra i ghiacci? Beh, a meno che… il suo corpo non vada in decomposizione. Ma certo! Allora sì che si troverebbe bene a -60°C!

– Un miliardario che per evitare la putrefazione si trasferisce a Ust’Nera.

– Potrebbe essere un’idea ma… sono le 14,30 e quel rossiccio là in fondo preannuncia il tramonto. Sarà meglio lasciare la Siberia. Di materiale per scrivere ne ho abbastanza, se considero anche quel fatterello misterioso che ha stuzzicato scrittori e scienziati…

– Di cosa parli?

– Non te lo dico, così leggerai i miei racconti.

– Sogna, Giovannina Perdigiorno, sogna… intanto con la scusa del ferragosto non hai scritto niente.

– Ora basta, grillaccio del malaugurio… va’ a farti un giro con gli stivali delle sette leghe, va’!

E noi continuiamo il viaggio. La prossima volta andremo a…

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