«Il buco», racconto di Roberta Poggio
12 venerdì Ago 2022
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in12 venerdì Ago 2022
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in27 venerdì Nov 2020
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inHo letto un post che mi ha toccato il fondo,
un thread audace e senza freni intorno,
metteva il cosa, di per sé già ardito,
in una forma che non regge filtri.
Ricordo il modo in cui scrivevo un tempo,
cui mi abbandono s’entra in me il sonoro,
musa potente, musica m’assorbe,
mi sbrana l’anima e si risputa fuori.
Ho così il pezzo, il brano o il testo pronto,
ma perdo spigoli del mio equilibrio dentro.
Sia festa prodiga di luci e sguardi liberi,
se canta il diavolo finisce a stupro e vomito.
L’amore tenero, sessuato o forse impavido,
si scopre torbido, quando a calare è il ritmo.
Per questo spesso mi tengo alla larga dalla musica, da certa musica che risveglia la sintassi peggiore di me. Ma non è solo una questione di forma. A volte a spaventarmi è il viaggio che mi aspetta, il posto che visiterò per scrivere, il cammino da percorrere.
Finché uno entra in casa propria, magari nell’appartamento in cui abitava felice da piccolo, è un conto. Ma affrontare spauracchi di un passato che genera bestioni su bestioni richiede coraggio. E la musica non sempre viaggia dalla parte dell’eroe, non sai in anticipo quali ricordi o esperienze amplificherà, potenzia ma ha effetti collaterali che uccidono.
Ci sono epoche che fanno paura e posti che feriscono, non serve musica ad amplificare. Il kinderheim dove trascorrevo l’infanzia estiva, certe serate a casa dei miei, il cimitero delle ampolle umane dove Astolfo cercherebbe di nuovo il senno altrui.
Per scrivere bisogna osare, penetrare certi edifici, esplorarli, allontanare mani e braccia da sé per frugare ciò che non si vorrebbe neppure sfiorare.
La mattina, quando esco, qualcuno mi chiede:
– Dove vai oggi?
Nell’appartamento di mio nonno, al parco del Valentino, nella biblioteca della vecchia scuola, al castello di Fenis, a lezione dal prof di fisica del liceo, a trovare il parroco di F., nella casa del boia, la risposta cambia a seconda di quel che voglio immaginare.
Prendo l’auto, accompagno chi va a scuola e mi dirigo verso l’ufficetto che mi aspetta. So quasi sempre cosa scriverò quel giorno, soprattutto se mi sto dedicando a una storia lunga. A volte ascolto una canzone preparatoria, qualcosa che porti le emozioni dove devono andare senza domarmi l’anima. Spengo la musica – non interrompo mai un pezzo, – pago il parcheggio se non c’è gratuito, lascio il tagliandino sul cruscotto, apro il portone dalla serratura difettosa e mi ritrovo nel loft zitto e in penombra. Sveglio luci, computer, macchinetta del caffè, sposto sedie, prendo penne fogli dizionari appunti e comincio. Entro dove so, i miei occhi guardano intorno ma non ho solo un visore a trecentossessantagradi, anche le mie braccia sono lì, le mie gambe, io stessa sono presente. E vedo quello che è successo, spesso non proprio come è successo, e sto bene, sto male, vorrei ridere piangere scappare ma resto lì, a osservare quelle scene che presto potrò raccontare. Perché senza musica posso anche tornare indietro.
Per anni la mia scrittura non ha avuto filtri, è stata incondizionata e in balìa di quel lato selvaggio, notturno, famelico e cannibale che spaventa tanto, prima me e poi tutti gli altri. Mi svegliavo la notte in sovraccarico di emozioni, sono piena di quei testi febbricitanti. Poi ho spento la musica per una decade. Quando l’ho riaccesa avevo addosso come un sigillo invisibile, un piccolo dispositivo che controllo a mio piacere con una certa facilità. E la mia scrittura si è fatta misurata. Per qualcuno è anche troppo controllata, lo sforzo traspare.
Vivo lo stesso, sento, immagino, soffro e scrivo, ma respiro la notte anche quando non dormo. Ogni tanto devo sciogliere il sigillo, decido io.
Ho salvato me a discapito della scrittura. Ho rinunciato a distruggermi, a diventare musica, a carezzare la follia, a ingollare eccessi, anche se il mio spirito consumato si sente ormai vecchio. So che il mio demone feroce resta in agguato, però ho scelto di darmi tregua.
La mia scrittura non diventerà mai quella che sarebbe stata se mi fossi immolata alla creatività, ma meglio non rischiare: a volte la natura si beffa di noi, instilla in un vago scribacchino l’urgenza del Sommo Vate.
Leggo i quaderni passati, erano più forti; e non è per l’età o lo scorrere del tempo, a sedare è proprio quel sigillo che fatico sempre meno a sopportare, purtroppo.
Ripenso a un manga (e successivo anime) di cui ho curato l’edizione italiana per Dynit, Saiyuki di Kazuya Minekura. Basato sul romanzo cinese Viaggio in Occidente – ispirato alla leggenda dello scimmiotto di pietra Sun Wukong (si pensi a Dragonball, al più recente The new legends of Monkey di Netflix e ai vari adattamenti per videogiochi) – il fumetto parla del viaggio verso ovest compiuto da quattro personaggi (meravigliosi!) per cercare i sacri sutra che serviranno a fermare la resurrezione del re dei demoni.
Tra questi viaggiatori c’è anche Son Goku, il più giovane del gruppo, la trasfigurazione dello scimmiotto immortale rimasto imprigionato per cinquecento anni sul monte Gogyo (il monte dei Cinque Elementi) e poi liberato. Son Goku porta sul capo un diadema, un dispositivo di controllo, e quando lo perde si trasforma nel Seiten Taisei, “il grande santo pari al cielo”, una creatura invincibile e animalesca che libera i suoi poteri demoniaci perdendo il controllo di se stesso.
Ecco, la musica mi trasforma nel Seiten Taisei.
E quando il grigio si spiccica dalla pianura e la foschia evapora, lontana la cima del Monviso si fa inarrivabile, una montagna sacra spezzata dalle nubi, la tana di creature potenti, divinità assorte e demoni rabbiosi, e magari dello stesso Goku.
Ho la sensazione che se togliessi il sigillo, l’umanità mi relegherebbe lassù per cinquecento anni e oltre, e nella notte sarebbe terribile convivere coi miei mostri, più spaventosi dei lupi che popolano queste zone.
Ma per fortuna controllo la musica e domino la scrittura. Quasi sempre.
Scritto da Scribastonato il 27/11/2020
09 lunedì Nov 2020
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aspirante scrittore, cartoline, lettere, libraio, libreria, lotus flower, music, racconto, RHCP, romanzo, writer
There must be something
in the way I feel
that she don’t want me to feel…
Così venti e più anni fa i Red Hot Chili Peppers attaccavano la loro I could have lied. Li ascoltavo in loop, quel tardo pomeriggio di autostop tra Bolsena e Roma station. Sulla decapottabile di un bordò parecchio losco i due arabi cappuccio e gioiellazzi, uno alla guida col sigarillo spento e l’altro a grattarsi il piede in infradito, mi volgevano domande dal look sincero. Credo provassero pena.
La musica amplificava il male che mi picchiava dentro: un amore precipitato in fretta, i se avessi fatto o se fossi stata e da domani e mai più, e i due arabi rap che aggiungevano beat al mio mesto freestyle.
Non sono cambiata molto da allora, continuo a fare e mi ostino a essere, forse perché – per dirla alla RHCP – il mio volto riflette sempre il vero. Purtroppo.
Tre giorni a Viterbo, bed & breakfast a ridosso del cerchio di mura. Lotus flower, fiore antistress di metallo e perline sul comò della stanza che mi ospita. Riconosco il giochetto indiano, lo vendevo nel mio peregrinare giovanile, riproduce le forme dei pianeti, mi manteneva in permanent vacation per le vie spensierate d’Europa.
Le notti di freddo e stelle sarebbero finite quella volta a Bolsena, una rottura assecondata dai miei amici arabi rap. Dioniso che irrompe come allora per stravolgere un presente dall’aria più mite, accende una danza odierna che straccia i freni, i blocchi e i divieti cui mi sforzo di aderire.
Azzanno le recinzioni del coprifuoco, gengive sanguinano tra il ferro incorrotto, i denti vacillano e la lingua è sbrandellata ma continuo a masticare, a colare, a lacrimare senza requie, perfino quando le guance sono squarciate e l’osso dubita di reggere.
Mastico anima e smanio libertà, certi ricordi generano fiumane. Ma la libertà stavolta può portare morte, non si ragiona col morbo oltre la rete.
Gli Einstürzende Neubauten urlano, martellano, si fanno propulsori.
No, non sono più così. Le mani sulla rete cercano uno spiraglio, il metallo punzecchia, un graffio alla carne e subito mi ritraggo, basta sofferenza.
Piango e soggiaccio a questa nuova me: io-voglio-vivere.
Resto audace e ribelle nelle parole che leggo, che scrivo.
La settimana scorsa ho comprato La fisica della malinconia di Georgi Gospodinov (edizioni Voland). Il mio libraio ha un rituale: timbra una fascetta di carta marroncina, l’avvolge intorno al libro e v’inserisce all’interno una vecchia cartolina spedita da chissà quale parte d’Italia.
Fremo ogni volta per scoprire l’omaggio, bramo che vada oltre i tradizionali saluti dalle vacanze di un dì.
Ho chiesto al libraio: ora conosco l’origine delle sue cartoline. Però.
– Però…?
– Eh, però la mia testa…
– Lo so che sei una testona, ma cosa c’entra adesso?
– La mia testa ne ha già rielaborato i pezzi, la storia non è più incontaminata. La racconto lo stesso?
– E ti dobbiamo pregare?
Marino che vive al paesello montano natio, Marino con la bocca storta da che si sappia, Marino senza soldi né appeal per attirare una compagna. Marino, che una figlia con una bracciante mentecatta gli è anche uscita, poi non ne sa più nulla di una né dell’altra.
Marino che si arrabbia col sorriso, Marino che inclina il capo se ringrazia. Marino che un giorno alla bottega conosce Celia: quelle cosce mulatte sono troppo, ma accetta il dono finché la vita glielo permette.
Marino e Celia sembrano beati, in un paese che non capisce come: lui svuota cantine sull’Ape sgangherata, lei assiste la vecchia Elvira che soffre di paturnie. Ogni sera, appena la pendola dice otto, Marino varca il cancelletto a ruggine, lungo abbraccio dopo un tempo arido e annusa il fumo della sua pietanza esotica. Non manca notte che non porti un ninnolo, ciondolo o spilla o statuina mutila. Allinea gli scarponi bugnati all’ingresso, ci mette dentro le chiavi che non può scordare e insieme fanno festa, Marino e Celia, sotto la luce che traballa gravida.
Ogni tanto i clienti lo pagano, Marino, lo pagano in banconote che subito regala a Celia, sul loro tavolo. Celia lo trattiene, non preoccuparti, di soldi bastano quelli che guadagno io; e bacia quella bocca storta e amabile.
Nel dopocena portano in cantina la merce accatastata, smistano robe da tenere e vendere, risanano il recuperabile e stringono sacchettoni per la discarica.
E conservano lettere, Celia e Marino, lettere e cartoline che puzzano di emozione, del lieto e del dolore, che narrano la vita di chi è fuori dalla memoria e non ha più ricordi; lettere e cartoline che Marino e Celia si raccontano a vicenda, prima di dormire.
Marino è felice con la sua donna colorata, così felice che aiuta a traslocare chiunque glielo chieda, e lo fa gratis, tanto è contento, se avessi bisogno gli altri mi aiuterebbero.
Ma il bisogno, si sa, prima o poi chiama, e la risposta non sempre è quella attesa.
Celia, scaduto il permesso, è richiamata al suo Paese, quel paese così lontano e pitturato che per Marino non ha una faccia. Entrambi sono pazzi dentro, pazzi e in bilico saltellano da un piede all’altro, implorano aiuto da chi al paesello conta. Tutti dispiaciuti ma non so che fare, non posso, non ora, dai che andrà bene, e intanto i giorni passano e Celia sta per partire.
Marino non osa rinunciare, neanche per seguirla, neppure se fa male. E perde la sua Celia.
Com’è lunga la sera nella casupola fredda, la luce è stabile ora che Marino fa pagare i suoi servigi a chi credeva amico.
Celia prova a contattarlo ma cade sempre la linea, il cellulare da quel fianco di montagna prende poco e non raggiunge il Perù. Gli scrive una lettera, due, tre; Marino non risponde, lei demorde. O forse le succede qualcosa, ma la distanza è troppa per preoccuparsi.
E scorrono così, quegli anni di vita trattenuta. Marino sta nella catapecchia e basta a sé, tra lavoretti ormai radi causa schiena e beni da smistare e rivendere. Conserva lettere e cartoline, Marino dalla bocca via via più storta, uniche a distrarlo qualche attimo dalla sua Celia.
Non l’ha chiamata, non le ha scritto, ma l’ultima parola e poi spira è Celia.
Lo trovano una settimana dopo, qualcuno si premura di rintracciare la figlia: brusca, sgraziata e insofferente, cammina sulle travi che scricchiolano annerite scalciando i resti della vita di un paese. Inciampa sugli scarponi, fanno capolino le chiavi, colpisce con rabbia. Il curatore testamentario le consegna il denaro lasciato in un cassetto, le tre lettere avvolte nella velina e le scatole che custodiscono mezzo secolo di memoria epistolare.
Intasca i soldi e butta il resto, non li voglio questi schifi.
A un mercatino il mio libraio recupera lettere e cartoline, le acquista in blocco affascinato dalla varietà. L’ambulante conosceva Marino, mostra gli scarponi callosi quanto dovevano essere il volto e le mani del proprietario.
Il libraio conserva in cassaforte le tre suppliche di Celia, ma regala ai suoi clienti i rimasugli di quel paesino quasi spento tra i monti, non vuole che si estingua.
L’altro giorno non mi ha lasciato una cartolina, nella fascetta de La fisica della malinconia. C’era una lettera. Bordo a righe rosse e blu su busta ingiallita, VIA AIR MAIL. Non l’ha scritta Celia, ma qualcosa deve pur raccontare. E poi l’ha tenuta Marino, con le sue manone come foglie di ficodindia, di sicuro l’ha letta prima di addormentarsi, magari proprio alla sua amata.
Non mi decido ad aprirla, adoro la malia di quest’attesa. La nascondo in un libro che porto sempre in borsa: la sbircio di straforo, l’accarezzo, la pregusto. Se sarà una delusione, mi avrà comunque dato tanto.
Che strano, come mai nessuno m’interrompe?
Va beh la lettera è qui, con me, tangibile e vera.
La prossima volta ne svelerò il contenuto…
I could never change
Just what I feel
My face will never show
What is not real.
(RHCP, 1991, I could have lied, Warner Bros. Records)
Scritto da Scribastonato il 09/11/2020
31 lunedì Ago 2020
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in7,30 a.m., ultima domenica d’agosto che a quest’ora non sembra domenica. Appuntamento-caffè con un’amica per la quale rinuncio volentieri al sonno. Cammino fino al Parco Urbano, mascherina sul naso a mitigare il freddo e braccia che rimpiangono un altro paio di maniche.
Intorno Sabbia rossa e deserto alla Litfiba, Vento d’estate come per Niccolò Fabi e alcune facce da mandillä, i tagliaborse di De André, a farmi accelerare.
Il mare abbaia, raffiche solleticano musi canini, la macchia mediterranea spumeggia nell’aria. In lontananza centri storici, cattedrali e ciminiere da archeologia industriale. Chiome verdi si agitano come sulla testa delle sciure a teatro. Il sole protegge ancora la nostra estate umana. Tre uomini che corrono e ridono, sparute macchine dagli occhi rarefatti, biciclette coi polpacci arrugginiti.
Tutti si ignorano, tutti mi ignorano. Va bene così, non mi serve niente.
Ma se avessi bisogno?
Pochi giorni senza scrittura e sono scivolata via dalla storia. Non è questione di concentrazione, quella si ritrova. Se trascuro un progetto subentra una vera mancanza di confidenza, i personaggi si fanno muti e non arrivano più soluzioni. Tento invano di recuperare quella trama che sembra passata di moda, fisso idee impalpabili e scartabello tra vecchi appunti a caccia di benevolenza.
Il pensiero pretende devozione e io l’ho trascurato per la parola. La parola uccide il pensiero, ripetevo anni fa a chi mi disturbava sul treno. In effetti per quattro giorni sono scesa in spiaggia e ho parlato, parlato, parlato coi vicini di ombrellone, sul bagnasciuga, in acqua, alle docce, al bar. È stato piacevole, ma ho perso il filo.
Una volta ho scritto un racconto, Le mogli del mare, finito in un’antologia benefica curata da Andrea Franco. Le mogli del mare, tra difetti e ingenuità, narra di una lunga amicizia tra donne. Protagonista è il mare, padrone che attrae e respinge, nutre e fa soffrire, ricompensa e pretende sacrifici. Quel mare che giocando strappa un bambino ai suoi affetti.
Ieri in spiaggia ho letto il romanzo di un esordiente (Sa funtana ‘e s’ùlumu di Antonio Carta), ho fatto i cruciverba, ho giocato a Dobble. Il mare frizzante e corposo invitava a fidarsi. Acqua alle caviglie e al ginocchio, mi vedevo parte di un tutto festoso. All’orizzonte una mano mi chiamava entusiasta, avanzavo cauta nella bagna fredda.
Un movimento brusco tra me e le due signore coi cappelli di paglia. La coda dell’occhio snobba una massa grigiastra tra i flutti: “Non ci sono squali, sarà un secchiello”. Rapido spostamento d’aria e il papà ha già in braccio il tesoro smarrito, il fagottino di due anni che si azzuffava con la schiumetta per sopravvivere. Riecheggia un gran primo vagito. Noi tre donne inutili ci avviciniamo serie, colpevoli, e con noi una coppia di tedeschi sbucata da chissà dove. “Il bambino era lì e non l’abbiamo visto”, “Mi dispiace, non me ne sono accorta”, sembrano frasi di circostanza. Il papà annuisce distante, stringe forte la sua tragedia mancata.
Padre e figlio costruiscono insieme un castello di sabbia, passeggiano lungo la costa e siedono sul lettino a mangiare focaccia, la più buona della loro vita.
Ho fissato a lungo quella piccola magia. Il magone non mi ha dato tregua.
Magone da “avrei potuto” e “se almeno avessi”, lo stesso provato prima di Natale a Nizza. Sprofondiamo nell’indifferenza nostro malgrado, spesso solo per distrazione. O almeno, a me capita così.
Ma a Nizza è stato diverso, il rimorso mi accompagna ancora.
Resoconto.
Sto viaggiando al posto del passeggero, ne approfitto per guardarmi intorno. Intermittenze natalizie rischiarano una Promenade ignara di quel che già cova in Cina; bilocali design da riviste di architettura, hotel e maison di lusso, alberghi e boutique, giacigli e botteghe per chi può e chi meno.
Raggiungiamo un quartiere di auto e roba e gente accatastata, cose cose e cose ammonticchiate per le strade e sui balconi, quasi fossero la misura del benessere. La quantità non rende ricchi, qui è evidente.
Le luci si fanno misere, il supermercato appiccicoso resta aperto. Rallentiamo per un’auto in manovra.
Gesti rapidi attirano il mio sguardo. Due ragazzi sgualciti prendono a calci e pugni un coetaneo: stomaco, denti, naso, gambe, non si salva nulla. Sussulto, stringo la maniglia, resto immobile. Clienti schivano il gruppo e attraversano la strada. Ripartiamo e non dico niente. Mi volto a spiare i due che scappano, la vittima si alza a stento. Cerco scuse per tornare ma non è facile orientarsi in questo labirinto.
Sensi unici e vicoli ciechi, pedoni e clacson all’impazzata, finalmente il supermercato. Non c’è segno del pestaggio, ma so di non aver sognato. Il ricordo va al più giovane, più pulito, più fortunato, al bersaglio, a quello con più spavento e meno rabbia.
Erano pusher che raddrizzavano un cliente strafottente? Compagni stufi di essere vessati da quel figlio di papà? Rapinatori seriali che terrorizzano il quartiere?
Mi spaventa comunque l’idea che mio figlio, che tuo figlio, sia assalito per strada senza che nessuno intervenga, quello stesso figlio che accarezziamo, coccoliamo e amiamo da sempre. Forse a Nizza mi sarei cacciata nei guai, ma sarei dovuta intervenire.
Nick Hornby mi suggerisce la lista delle cinque cose che avrei potuto fare e invece niente. Avrei potuto:
1 – aprire di scatto la portiera e urlare: “Aiuto!”, “Fermi!” o qualunque altra frase, anche “La nebbia agli irti colli”, pur di spaventare gli aggressori;
2 – suonare il clacson per attirare l’attenzione fino a farli scappare;
3 – chiamare la polizia;
4 – scendere a separarli (no, questa non è plausibile);
5 – aiutare la vittima rimasta sola.
Non so chi sia né come stia quel ragazzo, ma continuerò ad augurargli ogni bene.
Tornando a oggi…
– Oggi è domenica, senti che campane.
– Ma che campane e campane, pensa a pulire il basilico così facciamo il pesto.
– Che noia! Va bene, ora vado. E tu pensa a buttare giù una traccia, che è fine agosto e non hai niente di decente da scrivere.
– Non è vero che non ho niente: ho qualche personaggio da caratterizzare, alcune psicologie che sconfinano nel patologico, due o tre situazioni carine per i protagonisti (in realtà carine per me, loro si divertiranno meno).
– In pratica hai due o tre sfigati dai tratti nevrotici ai quali ne combinerai di tutti i colori.
– Può darsi ma tu sbrigati in cucina, che di questo passo si fa notte e la domenica finisce.
In effetti devo essermi persa qualcosa, oggi è già lunedì…
10 lunedì Ago 2020
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Ho rivisto Vacanze Romane. Lei stupenda manco a dirlo, lui affascinante alla maniera dei tempi andati, una faccia da galantuomo rigata dal sorriso più malandrino.
Gregory Peck mi ricorda mio nonno nelle foto sbiadite del dopoguerra, sarà la fossetta sul mento ma a guardarlo sento quasi il profumo della brillantina Linetti.
Tutti dovrebbero avere un nonno Giuse, nella vita. Un ometto scappato alla guerra con trucchetti e sotterfugi, incapace di eroismi ma sempre pronto a far passare prima i fragili. Qualche anno di scuola da bambino, poco più che un talentucolo per le arti e la pittura, una piccola famiglia mantenuta come un gioiello camallando casse al porto. E tanto amore, tanta lettura, tanta timida curiosità a conservarlo troppo giovane per gli anni che gli piombavano addosso.
Trascorrevo il pomeriggio dai miei nonni, focaccia prosciutto cotto con maionese e libri. Avevano rinunciato al loro appartamento col pavimento in graniglia e i mobili antichi per stare vicino a figlia e nipoti: bilocale che dava sulla stazione e arredamento moderno. Quanto erano felici.
Mio nonno lasciava in bella vista, nella libreria sopra il divano, gli autori che sperava leggessi: Jack London, Charles Dickens, Hugo, qualche Zola, Silone, Gogol’, Hemingway e tanti altri.
Troppo in alto per stuzzicare c’erano i volumi più disgraziati, i classici che l’avevano annoiato come Peter Pan o Gian Burrasca, e i romanzi faticosetti, come Il Gattopardo e Cent’anni di solitudine o I demoni.
Ma.
Ma in una colonna della parete attrezzata, tra la finestra e la collezione di tazze da caffè della nonna, stava lasciva la vetrinetta dei libri proibiti: Nabokov, Wilde, Maupassant, Stendhal, Miller, Moravia, Boccaccio, Flaubert e compagni, autori mandati al confino con la sola colpa di aver scritto testi non ancora adatti alla mia età, o forse non del tutto consoni all’educazione di una signorina.
Aspettavo che il nonno Giuse uscisse a giocare a bocce con gli amici, prelevavo la chiave dal posacenere stile Taormina e trafugavo un libro alla volta: con che gusto leggevo tutta la notte sotto le coperte, la torcia tremolante fra le mani. Capivo solo metà delle parole scritte, ma restava un gran godimento.
Sospetto che mio nonno sapesse, anzi lo facesse apposta se anni dopo, col sorriso alla Gregory Peck – lo stesso di quando vedeva le tahitiane di Gaugin – disse: “Così quei romanzi ti sembravano ancora più belli, no?”
Provai quasi la stessa soddisfazione anni dopo, dalle suore. Nelle ore tra la chiusura del doposcuola e l’arrivo di mia mamma lavoratrice indefessa ottenni l’autorizzazione – o forse mi arrogai il diritto – di accedere alla libreria dell’Istituto: seduta a terra con tanto di uniforme blu e calze immacolate, divorai prima gli scrittori russi, poi i francesi, due o tre spagnoli e infine gli inglesi, i tedeschi e tanti italiani. Unica lacuna gli americani, che restano tutt’oggi il mio tallone di Achille.
Non ho mai smesso di leggere. Sul treno tra Genova Brignole e Bolzaneto, credo che in molti ricordino ancora “quella coi libroni in mano”. All’epoca fasciavo le copertine per nascondere i titoli, mi sentivo anacronistica a leggere Proust e Cechov, o forse temevo il giudizio di altri. Avevo faticato anni a costruirmi quell’aria da imbecille compagnona e non volevo perderla passando per secchiona che se la tira.
Ancora oggi, se nel vagone sono l’unica col cartaceo in mezzo a tanta roba tecnologica, mi arrendo a un audiolibro in cuffia.
I libri – come la musica – mi hanno salvato la vita. Non suono perché la musica scioglie ogni mio filtro in pianto, e dopo mezzanotte mi trasforma in Gremlin (“Ma questa – come direbbero in Irma la Dolce – è un’altra storia”).
Vorrei scrivere. O meglio, quando posso scrivo. Mi dispiace solo che i miei testi non riescano a farsi conoscere. D’altra parte, quando vado al cinema di solito la sala è più o meno deserta. E se leggo un romanzo contemporaneo, scopro che siamo in pochi ad apprezzarlo. Come dice mia sorella, probabilmente ho interessi di nicchia. Oppure…
– Hai gusti pallosi!
– Grazie.
Stavolta ha ragione, forse leggo e scrivo cose pallose.
09 domenica Ago 2020
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inChi ha abbastanza disciplina per scrivere un romanzo?
Ho smesso di lavorare qualche anno fa, è stato come strapparsi un arto: di colpo sono passata da quindici e più ore giornaliere d’impegno a zero totale, telefoni muti e nessuno a spremermi. Poche preoccupazioni, neanche un goccio di adrenalina. Amavo profondamente il mio lavoro, non capita a tutti di essere pagati per ciò che si sa fare davvero.
Mi sono messa a scrivere per conto mio: per un bisogno impellente, per i personaggi che urlavano in testa, per le storie che mi rapivano alla realtà, blablabla etcetc.
Ho buttato giù la traccia (una luuunga traccia), incastrato vicende e persone e via. Ho capito subito che non sarebbe stato come scrivere un racconto, per quanto lungo. Il tempo passava, le pagine (dritte o storte) aumentavano senza mostrare il fondo.
Altro che scrittori maledetti, altro che alcol e genio & sregolatezza: ho scoperto che la scrittura è un lavoro da artigiano, quasi da certosino, testa a cuocere e pedalare.
Tante volte sono stata sul punto di abbandonare. Poi ho raggiunto la metà, e il punto dopo la metà, e una parte di me, vedendomi esausta, è andata in giro (soprattutto per il web) a cercare risorse: e allora avanti coi siti di crescita personale e i gruppi di discussione, aforismi motivazionali a gogo e Ted Talk su procrastinazione e disciplina e forza di volontà; sotto con le tecniche del pomodoro, del peperone, con le sfide da quindici minuti e da novanta giorni. Ma la fine sembrava ancora lontana.
Se scrivi un romanzo non devi rendere conto a nessuno, non sei stritolato dalle scadenze, dai clienti né dai datori di lavoro, ed è quindi più facile indulgere al riposo. Soprattutto se rallentare ti dà una gratificazione immediata: una bella giornata con chi ami, una vacanza improvvisata, qualche ora di shopping, tempo per te e le tue passioni.
E allora perché ostinarsi al sacrificio, perché scrivere parole che a rileggerle fanno schifo?
Poi ho trovato il mio metodo, quello stesso che mi ha trascinato per i capelli fino alla meta: senza rinunciare alle diverse tecniche per sviluppare l’autodisciplina, ho deciso di assegnarmi uno stipendio. Esatto, di pagarmi. Perché se non ci credo io, chi ci crede?
Ho preso un barattolo molto grande, tipo quelli delle drogherie di una volta per le caramelle di eucalipto o le liquirizie e le violette. Ho attaccato su una bella etichetta a fiori: STIPENDIO PER IL ROMANZO – 0,01 centesimi a parola (il compenso per la revisione era inferiore).
Da quel momento ho scritto almeno duemila parole al giorno, e ogni sera ho versato lo stipendio nel barattolo. Non ricordo come io abbia speso i soldi così guadagnati, probabilmente ho pagato il bollo auto e poco altro, però l’idea che qualcuno credesse in me tanto da investire denaro è servita eccome.
Adesso vorrei scrivere un secondo romanzo (ancora per qualche anno non potrò lavorare, perciò ne approfitto). Prima del lockdown ho tirato giù una traccia (che non mi convince) e ho affittato una scrivania in coworking.
So che sarà più difficile, la delusione del primo romanzo si fa ancora sentire, ma cercherò di andare avanti col paraocchi, col paraorecchie, con l’armatura.
Ogni suggerimento è ben accetto.
– Vattene a nanna, che è tardi.
– Non intendevo ques… va bene, buonanotte.
07 venerdì Ago 2020
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inContinuo a perdermi tra gli appunti degli ultimi anni, idee e bagatelle da riesumare o seppellire.
– Zombie?
– Naaa, zitto tu, niente putrefazione. E poi non è ancora il tuo momento.
Oggi farei lavorare al mio posto Ciccia e Ciccino, troppe incombenze che mi creano ansia, devo quasi uscire.
Ho ricominciato per la terza volta “On writing” del Re. Come sempre mi sono stufata a poco dall’inizio, vorrà dire qualcosa se ho letto il mio primo S. King solo in lockdown (imponendomelo a fatica).
Scelgo il compromesso: accantonerò as usual l’indigesto trattatello reale per continuare con l’amabile tomino di Guido Conti (“Imparare a scrivere con i grandi”) e col compianto Haruf (l’ultimo tradotto è delizioso), ma sacrificherò qualche ora per seguire le lezioni di stile di W. Strunk, come suggerito da King.
Dall’archivio a cilindro (che poi è un sacchettone di quelli robusti, da supermercato, pieno zeppo di fogli e agende senza priorità) estraggo una storia ottocentesca, un mix tra Paperinik e lo Squartatore con un retrogusto di beffa in agguato dietro i lampioni. Sarebbe laborioso estrapolare qualcosa di utile da questi appunti, forse perché quindici anni fa immaginavo di trarne una storia lunga, una sceneggiatura più che un romanzo. Purtroppo temo ne uscirebbe un altro racconto di mezza misura tipo il mio ultimo lavoro, quaranta pagine scarse improponibili a chiunque.
– E tu allunga il brodo!
– Piuttosto lo faccio restringere, almeno ha più sapore. L’argomento è delicato, rischio di scrivere l’ennesima storiella trita e ritrita. Poi si ha un bel dire che tutto è già stato scritto e che a fare la differenza è il come: lo stile di chi racconta, il senso del ritmo, il lessico e il resto. Ma se la storia non dice nulla o non è spendibile manco a pregare, potrei anche avere uno stile da ultimo Strega che a nessuno importerebbe.
– Mi hai convinto, quella di Paperinik lo Squartatore non voglio sentirla. Altre idee? Fruga, fruga…
– Ecco, qui ho un bel paio di mocassini.
– Mocassini? Ma non sono un po’ fuori moda? Giusto mio padre li metteva.
– E infatti è proprio quello il senso. Appartengono a un ragazzo di strada, un funambolo che gira il mondo con una valigia di trucchetti e poco più, ma non si separa mai dai mocassini di suo padre. Li pulisce, li lucida e li indossa ogni volta che fa uno spettacolo. E ogni volta rivive la delusione, la stessa che ha causato a suo padre scegliendo una strada diversa da quella tracciata. Ma una notte, a Venezia…
– Basta! Non voglio saperlo, se no non la scrivi più. Forza, fila a lavorare e butta giù questo racconto, che voglio leggerlo.
– Va bene, allora scriverò “Lo spettacolo era finito”.
Lo spettacolo è finito…
06 giovedì Ago 2020
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esordiente, gatti neri, imperia, mamma, poesia, progetti, racconti, scrittura, writing
Stamattina sveglia presto, discorso del Dalai Lama sotto la doccia (ma non ci capisco ancora niente… sarebbe il caso di leggere qualcosa a proposito?) e poi arriva una prima idea, “Il secchio e il mare” :-), pensato e tratteggiato e non è uno scherzo, anche se fa ridere!
Colazione & giornali da vacanza, Kent Haruf e poi momento di felicità. Perché la bellezza, la poesia, basta cercarle e sono veramente ovunque. E se non abbiamo voglia di cercarle arrivano da sole, basta accoglierle: sono due ragazzini con la chitarra sul balcone, il vicino che ti libera da un finto addetto Enel, una macchina gialla che sorride per farti attraversare, le unghie appena tagliate e limate, il profumo dell’acqua di rose.
Che fatica essere lui, quello che cammina sempre, che urla alle persone. Giovane, carino, vestito bene, dev’esserci per forza chi lo accudisce. Però matto, matto o tossico, pronto a inveire e a questuare per poi esplodere. Già alle sette del mattino è costretto a camminare, forse perché il suo peggior nemico, se stesso, non gli dà tregua. Oppure è sua mamma, sua zia o qualcuno che lo ama a forzarlo. Cammina e non sa perché, come il nipote delle vecchine di “Arsenico e vecchi merletti”, che costruiva il Canale di Suez ignaro del piano delle ziette. Immagino con quanta compassione lo spediscano a calpestare le strade d’Imperia a quell’ora.
Davanti alla stazione ferroviaria ormai in disuso c’è un furgoncino da lavoro – il classico camioncino bianco tipo Fiorino – parcheggiato regolarmente e coi vetri chiusi. Dentro, un uomo sulla cinquantina in tenuta da operaio, maglia rossa sbrindellata e mani raspose, abbraccia e bacia un’esile figura arrendevole, un flauto traverso abbandonato alle sue dita appassionate quasi lo guidassero alla Scala. Il suono, ovattato, è irrilevante rispetto all’impegno di studio. E questa per me è poesia, ca°°o, questa è poesia!
Oggi cercavo un’idea e ne ho trovato due. Come dicono i miei gatti: “Se non ti viene in mente niente… pensa alla mamma”. Due mamme diverse, una per racconto.
La prima fa il bene del figlio nonostante il contesto in cui vive, e quando capisce che l’unico modo per salvarlo è ribaltarne i modelli… compie un gesto estremo (no, non si ammazza) e bizzarro.
L’altra mamma, all’opposto, dietro una parvenza di bene sta danneggiando il piccolo, lo sta danneggiando per sempre.
– Ma oggi non è la festa della mamma. E poi che noia, sempre a dare la colpa alle mamme…
– Nessuna delle due ha colpa. O forse sono colpevoli entrambe. Chi non lo è? Del resto, se ti assumi la responsabilità di un’altra persona hai più possibilità di fortuna, il doppio delle possibilità, il doppio delle soddisfazioni e delle gioie. Ma hai anche doppi dolori, doppie colpe e sfighe. Se hai accettato la scommessa, un po’ te la sei voluta. Nella vita sei stata sempre una poveraccia che si è dovuta conquistare tutto: perché ai tuoi figli, con lo stesso DNA e la stessa incapacità d’imparare dagli errori, dovrebbe andare meglio? A meno che…
– A meno che non li adotti?
– A meno che tu non decida di offrire loro qualcosa di diverso rispetto a quello che hai avuto. Ma non è detto che sia la soluzione.
– E non è detto che sia quello che vogliono loro.
– – Me ne frego, sono i miei personaggi e fanno quello che dico io!
Quello che dico io.
05 mercoledì Ago 2020
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inPassate le 18, passato luglio, passato il lockdown, passato il Calvino. Anzi no, il Calvino col cavolo che l’ho passato. Ho appena ricevuto la scheda di lettura: condivido molte critiche, ma non accetto che certe scelte lessicali siano additate come imprecisioni. Pazienza, tanto non avrei vinto lo stesso. è (ma come si inserisce la “è” maiuscola su wordpress?) facile che abbiano ragione, ho scritto un romanzo con evidenti debolezze. Forse anche di struttura. Eppure – come per fortuna mi è stato riconosciuto – presenta diversi punti di forza. Bene, partirò da quelli per andare avanti, per scrivere una nuova storia e trasformarla in romanzo.
Intanto mi godo l’aria fresca d’Imperia, questi due strani gatti neri dei boschi e i tanti appunti che ho trafugato dal mio passato.
Potrei proporre un racconto a una rivista, con l’Almanacco Guanda ha funzionato.
Tra una canzone natalizia e un film freddo, in questo agosto butterò giù il soggetto della mia prossima storiaccia autunno-inverno.
E imparerò a digitare un po’ più in fretta, magari utilizzando dita che non siano le solite due.
Bene, cominciamo: oggi copierò gli appunti su un uomo privato dalla religione della possibilità di essere un tizio qualunque.
– Perché, la religione ha ancora tanto potere? Se non se la fila nessuno! Di sicuro sarà stato un prete a privarlo di certi privilegi, non la Religione con la R grande. E poi perché vuole essere un tizio qualunque? L’alternativa è brutta? Disdicevole?
– No, l’alternativa non è malaccio, nessuno gli toglierebbe niente. E ti assicuro che il tizio ha un bel po’ di cose. Ma si sentirebbe un outsider, il solito escluso che tutti sembrano invidiare ma poi la domenica tutti a messa e pranzo da nonna.
– Quindi il nostro amico vorrebbe essere come gli altri? Perché, la domenica niente messa e digiuno?
– A casa sua la domenica si legge, si fa un piccolo circolo di lettura in famiglia, e… ma no, cosa ti racconto, non è questo il problema. Il fatto è che non riesce a entrare nel gioco, non ha la fede. E quindi tutto gli sembra strano. Se poi ci metti che i genitori l’hanno abituato a ragionare con la propria testa, a dire e a fare quel che pensa e a dare il giusto peso a persone e cose, capisci bene che il disastro è assicurato.
– A me sembra un gran figo, ce ne fossero…
– Tu ne vedi tanti così, in giro?
– No ma vorrei…
– Starebbe sulle palle anche a te al primo: “Sei come il mondo: abbracci tutto ma non stringi niente”. E se non al primo, al secondo commento antipatico. Così lui resta solo. Solo e incapace di mimetizzarsi.
– Quindi il racconto è sui suoi tentativi di farsi degli amici, meglio se devoti?
– No, non c’entra niente. è (maiuscola) su di lui che ogni santa volta cerca di accaparrarsi un sacramento e gli viene negato.
– Ma non avevi detto che… Va beh, fa niente, lo leggerò sulla rivista.
– Sempre che me lo pubblichino.
– Sempre che tu lo scriva.
Sempre che io lo scriva…