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Questione di virgola

19 sabato Set 2020

Posted by scribastonato in Travelling

≈ 26 commenti

Tag

autostoppisti, Delfi, Delphi, domanda, esordienti, oracolo, Pizia, scrittore, Travelling, writing

Ho perso un quaderno prezioso, un quadernetto blu-mediterraneo, comprato qualche anno fa in Grecia,  sul quale avevo annotato la storia – vera o pensata – delle facce e dei posti incrociati tra Delfi, Olympia, Corinto, Epidauro, Micene, Eleusi fino ad Atene.

Delfi ti cambia la vita.

La sera prima di salire al santuario di Apollo ceno in una tipica taverna di paese, mi raccontano miti che riascolto con piacere. Giro per le strade polverose tra pullman che non trovano requie, botteghe di formaggi sottovuoto e bazar di souvenir prevedibili. Compro per sei euro una radiolina a batterie. Sul balcone dell’hotel ascolto musica notturna a km zero, la piana fino al mare richiama gli eserciti che si sono fronteggiati nella prima guerra sacra, duemilacinquecento anni fa.

Cerco una domanda da porre alla sacerdotessa Pizia, ma devo formularla bene o sprecherò l’attimo. Al di là della risposta più o meno pregnante, a me interessa proprio la domanda, quel dubbio vitale che nell’antichità mi avrebbe fatto rinunciare a giornate lavorative, percorrere chilometri e chilometri a fatica, pagare tributi onerosi pur di ottenere un responso non per forza risolutivo. Voglio una domanda inespugnabile, che non lasci scampo all’oracolo ed esprima quell’unico desiderio che rivolgerei a un astro cadente.

E così, in una tiepida mattina primaverile che avrei voluto di due millenni fa, nascosta dietro un look maschietto alla Fantaghirò (le uniche donne che la Pizia accetti al tempio sono le pie comari che mantengono il fuocherello), col receptionist dell’albergo ad accompagnarmi, il mio quesito bell’e buono in tasca e una specie di saltacoda dei poveri, resto in attesa di un cenno.

Già, perché Apollo non sempre è disposto a dare consigli, neanche nei giorni stabiliti. I sacerdoti bagnano con acqua fredda una capra spaurita: se all’animale vengono i brividi il dio è sveglio e parlerà, la capra sarà bruciata e i presenti sapranno che la cosa si fa; se no, tutti a casa e alla prossima.

Fumo dal tempio, è andata.

Superata la giurisdizione di Athena Prònaia col suo ammiccante tempietto circolare, mi rinfresco alla fonte Castalia dove si purifica la Pizia prima delle consultazioni e ammiro il massiccio del Parnaso, tanto caro alle Muse e ai loro protetti.

Dopo negozietti di ex voto e laboratori artigiani, stretta tra le mura poligonali che a leggere tutte le scritte dei pellegrini si fa notte, vado zigzagando lungo la comoda e lastricata Via Sacra che attraversa il santuario fino al tempio di Apollo.

Mi arrampico tra pietre sacre, tempietti, tesoretti, cimeli e fotografi improvvisati fino alla meta, che chissà cosa doveva essere quando tutto sbrilluccicava di marmo, colori e metalli preziosi. Non degno di uno sguardo il museo, né il teatro: la domanda mi prude dentro e assecondo l’urgenza.

Al cospetto dei sacerdoti sono emozionata peggio che alla maturità. Domanda accolta, evviva! Mi purifico, offro sull’altare la focaccetta comprata in paese e pago il corrispettivo di un paio di sneakers. Mi tranquillizza leggere un familiare ΓΝΩΘΙ ΣΑΥΤΟΝ, “conosci te stesso” (sì, la scritta che in Grecia campeggia sulle magliette col faccione di Socrate, proprio quella).

Entro nel tempio, c’è qualcosa di sinistro e non sono i pipistrelli. L’agnellino sbrandellato e puzzolente che porto con me viene cotto, distribuito e in parte sacrificato.

Devo aver fatto tutto per bene se i sacerdoti, senza sospettare che io sia femmina, mi portano nella stanza segreta della Pizia: due statue di Apollo, una pietra-uovo che sembra una pigna, memorabilia a profusione, fumo, penombra e odore di abete natalizio misto a carne all’uccelletto.

La Pizia, sul trespolo, sembra una milf in preda alle caldane. Bevo un’acqua che sa di piedi allo zafferano e formulo la domanda per Apollo. La donna scende in una spaccatura del terreno e dopo venti minuti riemerge così strafatta che i sacerdoti parlano per lei, trascrivono le sue parole e me le riportano.

Grata e appagata mi avvio all’uscita, ma vengo trattenuta: la divinità reclama ancora un dono. Mi rassegno a lasciare il pataccone d’oro della Prima Comunione, la Madonna che stringe in braccio Gesù Bambino. Ma cosa se ne farà poi Apollo…!

– Ecco dov’era finito, il medaglione. Quindi… hai avuto il tuo responso?

– Certo, l’oracolo ha sentenziato: “Le mine non affogheranno nell’aere quando seppellirai i defunti”.

– Che tradotto sarebbe…?

– Che andrà bene o che andrà male; che devo staccarmi dal passato o che non devo cambiare solo per compiacere gli altri.

– Contenta tu.

– È la classica risposta sibillina, il senso dipende dalla virgola.

– E dove la piazziamo questa virgola?

– Può stare prima o dopo “nell’aere”. Mi auguro che vada prima.

– Va beh, basta parlare di oracoli.

– Torno a scrivere.

– Ma davvero tutta questa pappardella su Delfi e non mi sveli La Domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto?

– Non prendermi in giro! E poi cosa te ne importa?

– Magari mi aiuta a capire La Risposta!

– Sparisci, va’!

La soluzione del quiz La Domandona tra una settimana.

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Non si butta via niente

07 venerdì Ago 2020

Posted by scribastonato in writing

≈ 4 commenti

Tag

aspirante scrittore, esordienti, gatti, racconti, romanzo, scrittura, writing

8

Continuo a perdermi tra gli appunti degli ultimi anni, idee e bagatelle da riesumare o seppellire.

– Zombie?

– Naaa, zitto tu, niente putrefazione. E poi non è ancora il tuo momento.

Oggi farei lavorare al mio posto Ciccia e Ciccino, troppe incombenze che mi creano ansia, devo quasi uscire.

Ho ricominciato per la terza volta “On writing” del Re. Come sempre mi sono stufata a poco dall’inizio, vorrà dire qualcosa se ho letto il mio primo S. King solo in lockdown (imponendomelo a fatica).

Scelgo il compromesso: accantonerò as usual l’indigesto trattatello reale per continuare con l’amabile tomino di Guido Conti (“Imparare a scrivere con i grandi”) e col compianto Haruf (l’ultimo tradotto è delizioso), ma sacrificherò qualche ora per seguire le lezioni di stile di W. Strunk, come suggerito da King.

Dall’archivio a cilindro (che poi è un sacchettone di quelli robusti, da supermercato, pieno zeppo di fogli e agende senza priorità) estraggo una storia ottocentesca, un mix tra Paperinik e lo Squartatore con un retrogusto di beffa in agguato dietro i lampioni. Sarebbe laborioso estrapolare qualcosa di utile da questi appunti, forse perché quindici anni fa immaginavo di trarne una storia lunga, una sceneggiatura più che un romanzo. Purtroppo temo ne uscirebbe un altro racconto di mezza misura tipo il mio ultimo lavoro, quaranta pagine scarse improponibili a chiunque.

– E tu allunga il brodo!

– Piuttosto lo faccio restringere, almeno ha più sapore. L’argomento è delicato, rischio di scrivere l’ennesima storiella trita e ritrita. Poi si ha un bel dire che tutto è già stato scritto e che a fare la differenza è il come: lo stile di chi racconta, il senso del ritmo, il lessico e il resto. Ma se la storia non dice nulla o non è spendibile manco a pregare, potrei anche avere uno stile da ultimo Strega che a nessuno importerebbe.

– Mi hai convinto, quella di Paperinik lo Squartatore non voglio sentirla. Altre idee? Fruga, fruga…

– Ecco, qui ho un bel paio di mocassini.

– Mocassini? Ma non sono un po’ fuori moda? Giusto mio padre li metteva.

– E infatti è proprio quello il senso. Appartengono a un ragazzo di strada, un funambolo che gira il mondo con una valigia di trucchetti e poco più, ma non si separa mai dai mocassini di suo padre. Li pulisce, li lucida e li indossa ogni volta che fa uno spettacolo. E ogni volta rivive la delusione, la stessa che ha causato a suo padre scegliendo una strada diversa da quella tracciata. Ma una notte, a Venezia…

– Basta! Non voglio saperlo, se no non la scrivi più. Forza, fila a lavorare e butta giù questo racconto, che voglio leggerlo.

– Va bene, allora scriverò “Lo spettacolo era finito”.

Lo spettacolo è finito…

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