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Archivi Mensili: novembre 2020

Quasi sempre

27 venerdì Nov 2020

Posted by scribastonato in writing

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aspirante scrittore, musica, poesia, racconti, romanzo, saiyuki, scrivere, son goku, writing

Ho letto un post che mi ha toccato il fondo,

un thread audace e senza freni intorno,

metteva il cosa, di per sé già ardito,

in una forma che non regge filtri.

Ricordo il modo in cui scrivevo un tempo,

cui mi abbandono s’entra in me il sonoro,

musa potente, musica m’assorbe,

mi sbrana l’anima e si risputa fuori.

Ho così il pezzo, il brano o il testo pronto,

ma perdo spigoli del mio equilibrio dentro.

Sia festa prodiga di luci e sguardi liberi,

se canta il diavolo finisce a stupro e vomito.

L’amore tenero, sessuato o forse impavido,

si scopre torbido, quando a calare è il ritmo.

Per questo spesso mi tengo alla larga dalla musica, da certa musica che risveglia la sintassi peggiore di me. Ma non è solo una questione di forma. A volte a spaventarmi è il viaggio che mi aspetta, il posto che visiterò per scrivere, il cammino da percorrere.

Finché uno entra in casa propria, magari nell’appartamento in cui abitava felice da piccolo, è un conto. Ma affrontare spauracchi di un passato che genera bestioni su bestioni richiede coraggio. E la musica non sempre viaggia dalla parte dell’eroe, non sai in anticipo quali ricordi o esperienze amplificherà, potenzia ma ha effetti collaterali che uccidono.

Ci sono epoche che fanno paura e posti che feriscono, non serve musica ad amplificare. Il kinderheim dove trascorrevo l’infanzia estiva, certe serate a casa dei miei, il cimitero delle ampolle umane dove Astolfo cercherebbe di nuovo il senno altrui.

Per scrivere bisogna osare, penetrare certi edifici, esplorarli, allontanare mani e braccia da sé per frugare ciò che non si vorrebbe neppure sfiorare.

La mattina, quando esco, qualcuno mi chiede:

– Dove vai oggi?

Nell’appartamento di mio nonno, al parco del Valentino, nella biblioteca della vecchia scuola, al castello di Fenis, a lezione dal prof di fisica del liceo, a trovare il parroco di F., nella casa del boia, la risposta cambia a seconda di quel che voglio immaginare.

Prendo l’auto, accompagno chi va a scuola e mi dirigo verso l’ufficetto che mi aspetta. So quasi sempre cosa scriverò quel giorno, soprattutto se mi sto dedicando a una storia lunga. A volte ascolto una canzone preparatoria, qualcosa che porti le emozioni dove devono andare senza domarmi l’anima. Spengo la musica – non interrompo mai un pezzo, – pago il parcheggio se non c’è gratuito, lascio il tagliandino sul cruscotto, apro il portone dalla serratura difettosa e mi ritrovo nel loft zitto e in penombra. Sveglio luci, computer, macchinetta del caffè,  sposto sedie, prendo penne fogli dizionari appunti e comincio. Entro dove so, i miei occhi guardano intorno ma non ho solo un visore a trecentossessantagradi, anche le mie braccia sono lì, le mie gambe, io stessa sono presente. E vedo quello che è successo, spesso non proprio come è successo, e sto bene, sto male, vorrei ridere piangere scappare ma resto lì, a osservare quelle scene che presto potrò raccontare. Perché senza musica posso anche tornare indietro.

Per anni la mia scrittura non ha avuto filtri, è stata incondizionata e in balìa di quel lato selvaggio, notturno, famelico e cannibale che spaventa tanto, prima me e poi tutti gli altri. Mi svegliavo la notte in sovraccarico di emozioni, sono piena di quei testi febbricitanti. Poi ho spento la musica per una decade. Quando l’ho riaccesa avevo addosso come un sigillo invisibile, un piccolo dispositivo che controllo a mio piacere con una certa facilità. E la mia scrittura si è fatta misurata. Per qualcuno è anche troppo controllata, lo sforzo traspare.

Vivo lo stesso, sento, immagino, soffro e scrivo, ma respiro la notte anche quando non dormo. Ogni tanto devo sciogliere il sigillo, decido io.

Ho salvato me a discapito della scrittura. Ho rinunciato a distruggermi, a diventare musica, a carezzare la follia, a ingollare eccessi, anche se il mio spirito consumato si sente ormai vecchio. So che il mio demone feroce resta in agguato, però ho scelto di darmi tregua.

La mia scrittura non diventerà mai quella che sarebbe stata se mi fossi immolata alla creatività, ma meglio non rischiare: a volte la natura si beffa di noi, instilla in un vago scribacchino l’urgenza del Sommo Vate.

Leggo i quaderni passati, erano più forti; e non è per l’età o lo scorrere del tempo, a sedare è proprio quel sigillo che fatico sempre meno a sopportare, purtroppo.

Ripenso a un manga (e successivo anime) di cui ho curato l’edizione italiana per Dynit, Saiyuki di Kazuya Minekura. Basato sul romanzo cinese Viaggio in Occidente – ispirato alla leggenda dello scimmiotto di pietra Sun Wukong (si pensi a Dragonball, al più recente The new legends of Monkey di Netflix e ai vari adattamenti per videogiochi) – il fumetto parla del viaggio verso ovest compiuto da quattro personaggi (meravigliosi!) per cercare i sacri sutra che serviranno a fermare la resurrezione del re dei demoni.

Tra questi viaggiatori c’è anche Son Goku, il più giovane del gruppo, la trasfigurazione dello scimmiotto immortale rimasto imprigionato per cinquecento anni sul monte Gogyo (il monte dei Cinque Elementi) e poi liberato. Son Goku porta sul capo un diadema, un dispositivo di controllo, e quando lo perde si trasforma nel Seiten Taisei, “il grande santo pari al cielo”, una creatura invincibile e animalesca che libera i suoi poteri demoniaci perdendo il controllo di se stesso.

Ecco, la musica mi trasforma nel Seiten Taisei.

E quando il grigio si spiccica dalla pianura e la foschia evapora, lontana la cima del Monviso si fa inarrivabile, una montagna sacra spezzata dalle nubi, la tana di creature potenti, divinità assorte e demoni rabbiosi, e magari dello stesso Goku.

Ho la sensazione che se togliessi il sigillo, l’umanità mi relegherebbe lassù per cinquecento anni e oltre, e nella notte sarebbe terribile convivere coi miei mostri, più spaventosi dei lupi che popolano queste zone.

Ma per fortuna controllo la musica e domino la scrittura. Quasi sempre.

Scritto da Scribastonato il 27/11/2020

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Corrispondenze rap

09 lunedì Nov 2020

Posted by scribastonato in writing

≈ 6 commenti

Tag

aspirante scrittore, cartoline, lettere, libraio, libreria, lotus flower, music, racconto, RHCP, romanzo, writer

There must be something

 in the way I feel 

that she don’t want me to feel…

Così venti e più anni fa i Red Hot Chili Peppers attaccavano la loro I could have lied. Li ascoltavo in loop, quel tardo pomeriggio di autostop tra Bolsena e Roma station. Sulla decapottabile di un bordò parecchio losco i due arabi cappuccio e gioiellazzi, uno alla guida col sigarillo spento e l’altro a grattarsi il piede in infradito, mi volgevano domande dal look sincero. Credo provassero pena.

La musica amplificava il male che mi picchiava dentro: un amore precipitato in fretta, i se avessi fatto o se fossi stata e da domani e mai più, e i due arabi rap che aggiungevano beat al mio mesto freestyle.

Non sono cambiata molto da allora, continuo a fare e mi ostino a essere, forse perché – per dirla alla RHCP – il mio volto riflette sempre il vero. Purtroppo.

Tre giorni a Viterbo, bed & breakfast a ridosso del cerchio di mura. Lotus flower, fiore antistress di metallo e perline sul comò della stanza che mi ospita. Riconosco il giochetto indiano, lo vendevo nel mio peregrinare giovanile, riproduce le forme dei pianeti, mi manteneva in permanent vacation per le vie spensierate d’Europa.

Le notti di freddo e stelle sarebbero finite quella volta a Bolsena, una rottura assecondata dai miei amici arabi rap. Dioniso che irrompe come allora per stravolgere un presente dall’aria più mite, accende una danza odierna che straccia i freni, i blocchi e i divieti cui mi sforzo di aderire.  

Azzanno le recinzioni del coprifuoco, gengive sanguinano tra il ferro incorrotto, i denti vacillano e la lingua è sbrandellata ma continuo a masticare, a colare, a lacrimare senza requie, perfino quando le guance sono squarciate e l’osso dubita di reggere.

Mastico anima e smanio libertà, certi ricordi generano fiumane. Ma la libertà stavolta può portare morte, non si ragiona col morbo oltre la rete.

Gli Einstürzende Neubauten urlano, martellano, si fanno propulsori.

No, non sono più così. Le mani sulla rete cercano uno spiraglio, il metallo punzecchia, un graffio alla carne e subito mi ritraggo, basta sofferenza.

Piango e soggiaccio a questa nuova me: io-voglio-vivere.

Resto audace e ribelle nelle parole che leggo, che scrivo.

La settimana scorsa ho comprato La fisica della malinconia di Georgi Gospodinov (edizioni Voland). Il mio libraio ha un rituale: timbra una fascetta di carta marroncina, l’avvolge intorno al libro e v’inserisce all’interno una vecchia cartolina spedita da chissà quale parte d’Italia.

Fremo ogni volta per scoprire l’omaggio, bramo che vada oltre i tradizionali saluti dalle vacanze di un dì.

Ho chiesto al libraio: ora conosco l’origine delle sue cartoline. Però.

– Però…?

– Eh, però la mia testa…

– Lo so che sei una testona, ma cosa c’entra adesso?

– La mia testa ne ha già rielaborato i pezzi, la storia non è più incontaminata. La racconto lo stesso?

– E ti dobbiamo pregare?

Marino che vive al paesello montano natio, Marino con la bocca storta da che si sappia, Marino senza soldi né appeal per attirare una compagna. Marino, che una figlia con una bracciante mentecatta gli è anche uscita, poi non ne sa più nulla di una né dell’altra.

Marino che si arrabbia col sorriso, Marino che inclina il capo se ringrazia. Marino che un giorno alla bottega conosce Celia: quelle cosce mulatte sono troppo, ma accetta il dono finché la vita glielo permette.

Marino e Celia sembrano beati, in un paese che non capisce come: lui svuota cantine sull’Ape sgangherata, lei assiste la vecchia Elvira che soffre di paturnie. Ogni sera, appena la pendola dice otto, Marino varca il cancelletto a ruggine, lungo abbraccio dopo un tempo arido e annusa il fumo della sua pietanza esotica. Non manca notte che non porti un ninnolo, ciondolo o spilla o statuina mutila. Allinea gli scarponi bugnati all’ingresso, ci mette dentro le chiavi che non può scordare e insieme fanno festa, Marino e Celia, sotto la luce che traballa gravida.

Ogni tanto i clienti lo pagano, Marino, lo pagano in banconote che subito regala a Celia, sul loro tavolo. Celia lo trattiene, non preoccuparti, di soldi bastano quelli che guadagno io; e bacia quella bocca storta e amabile.

Nel dopocena portano in cantina la merce accatastata, smistano robe da tenere e vendere, risanano il recuperabile e stringono sacchettoni per la discarica.

E conservano lettere, Celia e Marino, lettere e cartoline che puzzano di emozione, del lieto e del dolore, che narrano la vita di chi è fuori dalla memoria e non ha più ricordi; lettere e cartoline che Marino e Celia si raccontano a vicenda, prima di dormire.

Marino è felice con la sua donna colorata, così felice che aiuta a traslocare chiunque glielo chieda, e lo fa gratis, tanto è contento, se avessi bisogno gli altri mi aiuterebbero.

Ma il bisogno, si sa, prima o poi chiama, e la risposta non sempre è quella attesa.

Celia, scaduto il permesso, è richiamata al suo Paese, quel paese così lontano e pitturato che per Marino non ha una faccia. Entrambi sono pazzi dentro, pazzi e in bilico saltellano da un piede all’altro, implorano aiuto da chi al paesello conta. Tutti dispiaciuti ma non so che fare, non posso, non ora, dai che andrà bene, e intanto i giorni passano e Celia sta per partire.

Marino non osa rinunciare, neanche per seguirla, neppure se fa male. E perde la sua Celia.

Com’è lunga la sera nella casupola fredda, la luce è stabile ora che Marino fa pagare i suoi servigi a chi credeva amico.

Celia prova a contattarlo ma cade sempre la linea, il cellulare da quel fianco di montagna prende poco e non raggiunge il Perù. Gli scrive una lettera, due, tre; Marino non risponde, lei demorde. O forse le succede qualcosa, ma la distanza è troppa per preoccuparsi.

E scorrono così, quegli anni di vita trattenuta. Marino sta nella catapecchia e basta a sé, tra lavoretti ormai radi causa schiena e beni da smistare e rivendere. Conserva lettere e cartoline, Marino dalla bocca via via più storta, uniche a distrarlo qualche attimo dalla sua Celia.

Non l’ha chiamata, non le ha scritto, ma l’ultima parola e poi spira è Celia.

Lo trovano una settimana dopo, qualcuno si premura di rintracciare la figlia: brusca, sgraziata e insofferente, cammina sulle travi che scricchiolano annerite scalciando i resti della vita di un paese. Inciampa sugli scarponi, fanno capolino le chiavi, colpisce con rabbia. Il curatore testamentario le consegna il denaro lasciato in un cassetto, le tre lettere avvolte nella velina e le scatole che custodiscono mezzo secolo di memoria epistolare.

Intasca i soldi e butta il resto, non li voglio questi schifi.

A un mercatino il mio libraio recupera lettere e cartoline, le acquista in blocco affascinato dalla varietà. L’ambulante conosceva Marino, mostra gli scarponi callosi quanto dovevano essere il volto e le mani del proprietario.

Il libraio conserva in cassaforte le tre suppliche di Celia, ma regala ai suoi clienti i rimasugli di quel paesino quasi spento tra i monti, non vuole che si estingua.

L’altro giorno non mi ha lasciato una cartolina, nella fascetta de La fisica della malinconia. C’era una lettera. Bordo a righe rosse e blu su busta ingiallita, VIA AIR MAIL. Non l’ha scritta Celia, ma qualcosa deve pur raccontare. E poi l’ha tenuta Marino, con le sue manone come foglie di ficodindia, di sicuro l’ha letta prima di addormentarsi, magari proprio alla sua amata.

Non mi decido ad aprirla, adoro la malia di quest’attesa. La nascondo in un libro che porto sempre in borsa: la sbircio di straforo, l’accarezzo, la pregusto. Se sarà una delusione, mi avrà comunque dato tanto.

Che strano, come mai nessuno m’interrompe?

Va beh la lettera è qui, con me, tangibile e vera.

La prossima volta ne svelerò il contenuto…

I could never change
Just what I feel
My face will never show
What is not real.

(RHCP, 1991, I could have lied, Warner Bros. Records)

Scritto da Scribastonato il 09/11/2020

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