Continuo a perdermi tra gli appunti degli ultimi anni, idee e bagatelle da riesumare o seppellire.
– Zombie?
– Naaa, zitto tu, niente putrefazione. E poi non è ancora il tuo momento.
Oggi farei lavorare al mio posto Ciccia e Ciccino, troppe incombenze che mi creano ansia, devo quasi uscire.
Ho ricominciato per la terza volta “On writing” del Re. Come sempre mi sono stufata a poco dall’inizio, vorrà dire qualcosa se ho letto il mio primo S. King solo in lockdown (imponendomelo a fatica).
Scelgo il compromesso: accantonerò as usual l’indigesto trattatello reale per continuare con l’amabile tomino di Guido Conti (“Imparare a scrivere con i grandi”) e col compianto Haruf (l’ultimo tradotto è delizioso), ma sacrificherò qualche ora per seguire le lezioni di stile di W. Strunk, come suggerito da King.
Dall’archivio a cilindro (che poi è un sacchettone di quelli robusti, da supermercato, pieno zeppo di fogli e agende senza priorità) estraggo una storia ottocentesca, un mix tra Paperinik e lo Squartatore con un retrogusto di beffa in agguato dietro i lampioni. Sarebbe laborioso estrapolare qualcosa di utile da questi appunti, forse perché quindici anni fa immaginavo di trarne una storia lunga, una sceneggiatura più che un romanzo. Purtroppo temo ne uscirebbe un altro racconto di mezza misura tipo il mio ultimo lavoro, quaranta pagine scarse improponibili a chiunque.
– E tu allunga il brodo!
– Piuttosto lo faccio restringere, almeno ha più sapore. L’argomento è delicato, rischio di scrivere l’ennesima storiella trita e ritrita. Poi si ha un bel dire che tutto è già stato scritto e che a fare la differenza è il come: lo stile di chi racconta, il senso del ritmo, il lessico e il resto. Ma se la storia non dice nulla o non è spendibile manco a pregare, potrei anche avere uno stile da ultimo Strega che a nessuno importerebbe.
– Mi hai convinto, quella di Paperinik lo Squartatore non voglio sentirla. Altre idee? Fruga, fruga…
– Ecco, qui ho un bel paio di mocassini.
– Mocassini? Ma non sono un po’ fuori moda? Giusto mio padre li metteva.
– E infatti è proprio quello il senso. Appartengono a un ragazzo di strada, un funambolo che gira il mondo con una valigia di trucchetti e poco più, ma non si separa mai dai mocassini di suo padre. Li pulisce, li lucida e li indossa ogni volta che fa uno spettacolo. E ogni volta rivive la delusione, la stessa che ha causato a suo padre scegliendo una strada diversa da quella tracciata. Ma una notte, a Venezia…
– Basta! Non voglio saperlo, se no non la scrivi più. Forza, fila a lavorare e butta giù questo racconto, che voglio leggerlo.
– Va bene, allora scriverò “Lo spettacolo era finito”.
Lo spettacolo è finito…
😉
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Blog molto bello.
Ciao.
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Grazie, anche il tuo blog mi piace molto, sono contenta di seguirti. Buonissima giornata. 😊
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Ho appena iniziato a leggerti, meno male che lo spettacolo è finito, forse ma il blog no!
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