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Io mi arrendo

27 domenica Set 2020

Posted by scribastonato in Reveries

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aspirante scrittore, autunno, chiostro, clessidra, esordiente, imperia, libri, monaci, scrittura, Topolino, wishlist, writing

Mattino smunto nel cantuccio di Piemonte che mi ospita da due anni, spiove nebbia e il cielo è di un grigio appiccicaticcio che nasconde montagne solide, lo detesto. Pioggia e fresco laborioso, settembre inoltrato infonde coraggio e progettualità anche a chi, come me, è più guardingo. 

Farò programmi e avrò un autunno, forse meno governabile dei precedenti ma in fondo sono gli imprevisti a forgiare le giornate. Quest’anno ancor più inutile – se mai abbia avuto senso – sì, inutile volere tutto sotto un controllo, beffare se stessi tracciando agende o calendari: priorità ed eventi resteranno vivi solo su carta, se il destino siederà di traverso.

Eppure mi ostino a imbottigliare la vita in una botte mai ebbra, ore anziché litri, e a tapparla ottimista per conservare ogni voce senza farla scappare, un po’ come Ursula nella Sirenetta Disney. Non mi accorgo, giorno a giorno, che l’alcol evapora, l’ossigeno altera, e ritrovo un contenuto che non è più lo stesso.

Uguale quando scrivo, devo aver già immaginato tutto. Settimane a progettare e pianificare e pazienza se per qualcuno è deplorevole o uccide la creatività, non so fare altro neanche per accelerare; sentirei di nuotare a riva. Ma la stesura non va mai come ho stabilito, basta un concetto a stravolgere la costruzione che l’ha preceduto e la pattumiera guadagna pagine a palate.

Amo documentarmi, raccogliere informazioni che chissà se mai userò, accarezzare migliaia di fogli che contribuiranno a scrivere poche righe e a volte neanche quelle.

Ho un sogno, temo poco originale ma lo inseguo da che io ricordi: sigillarmi per mesi in una biblioteca solo mia. Porterei scorte d’acqua e viveri, quaderni a righe fuori misura, penne nere blu rosse Pilot BP-S fine (col cappuccio e non a click, le stesse dai tempi delle medie), biancheria e jeans e maglie scure. E trenta pezzi della mia musica preferita, classica punk rock pop metal rap etnica e via dicendo – tutto tranne il jazz, che trasforma la mia ignoranza in frustrazione ma prima o poi rimedio. Metterei a oltranza un brano al giorno, tutto il giorno per un mese di fila e poi si ricomincia, un solo motivo fino a consumarne ogni sfumatura emotiva.

Un’unica sala con libri alle pareti fino al soffitto, organizzati da una mente superiore e a me benevola: per lo più testi che possano piacermi, servirmi o influenzarmi, un angolino di pinzillacchere consolatorie e qualche tomo antico a profumare l’aria. Tre tavolate massicce e lampadari a paralume, uno scrittoio Luigi Filippo (questo l’ho cercato su internet, non me ne intendo) affacciato sui romanzi ottocenteschi e il letto, essenziale, in una nicchia a parte. Un bagnetto con doccia e una cucina senza pretese, bon.

Fuori dalla biblioteca vorrei un chiostro da condividere con una piccola comunità di monaci, magari il chiostro di San Matteo a Genova, quello dell’Abbazia di Staffarda o della Certosa di Pesio, che con la neve è il mio rifugio. Ma basterebbero anche i resti di una chiesa sconsacrata, il cortile porticato di una cascina in disuso o le fondamenta di un edificio demolito, insomma un tracciato che accompagni il fluire dei miei pensieri.

Quando attraverso la fase acuta della scrittura, i monaci per me rappresentano un modello di organizzazione: mi alzo alle 5.20 e seguo una tabella che riprende la loro suddivisione della giornata, alternando lavoro manuale e intellettuale, ed emulo il rigore dei loro passi fino alle 21, ora in cui mi corico soddisfatta.

– Ecco che abbiamo la monaca di Mon…

– Silenzio, non adesso! Dicevo…

Il percorso che il chiostro offre è vitale per fantasticare.

Quando vivevo a Imperia percorrevo tutte le mattine lo stesso tragitto, schivando scelte e divagazioni: da Piazza Roma scendevo lungo via XX Settembre, noncurante degli ambulanti il giovedì o dei contadini il martedì, delle ciarle da bar e degli effluvi da panetteria.

Tiravo dritta fino al Duomo e mi arrampicavo al Parasio, così simile alla mia Genova. Oratorio di San Pietro che spia il Monte Calvario, mare mare per le Logge delle clarisse, crêuze ripide che se non stai attento ruzzoli cosce all’aria e passeggiata a strapiombo fino agli anziani che giocano a Cirulla in piazzetta.

 Ancora: passi svelti per Borgo Marina e i suoi fari, dondolio incantatore dei natanti e strilla dei pescatori che annodano le reti; ultimo sforzo ed ecco casa.

Non ho mai dato per scontato i posti in cui ho vissuto, ma ora che sono lontana apprezzo di più quelle passeggiate, aggiungevano pezzi alle mie storie: era come guardare un film, poi rientrare e riassumerne trama e personaggi. A volte mi sembrava di plagiare il lavoro altrui, tanta era la precisione con cui i racconti si delineavano in me.

Dal trasferimento non ho ancora trovato un percorso simile, né un mio ritmo di scrittura costante. Sarà perché camminare col freddo è faticoso, perché non conosco le zone e mi distraggo o perché ho paura di cimici e altri insetti che qui abbondano.

Così mi sono organizzata in soggiorno, dispongo a terra vecchi numeri di Topolino a formare un grosso rettangolo – lo facevo anche da piccola per delimitare la casetta immaginaria, mi sentivo invisibile come quando piove – e seguo il…  

– Conosco un bravo psicologo.

– Basta, mi distrai.

Seguo il tracciato esterno del quadrilatero di giornalini, tra i monaci apparenti che riflettono senza badare a me. Circumnavigo il chiostro finché non germoglia l’idea, e cresce, e rotola come balla di fieno.

Insomma, quando i sogni non si realizzano bisogna darsi un’alternativa. La mia scrivania si trasforma nello scrittoio silente della biblioteca, gli operai che alternano pausa e lavoro sulle impalcature diventano religiosi che seguono la rigida regola del loro Ordine, stampanti e traffico si arrendono a un muto brusio.

Solo così porterò avanti i miei progetti senza affibbiare colpe, sistemerò la traccia del romanzo che vorrei scrivere (incompleta, incoerente e troppo lunga per risultare utile) e butterò giù due raccontini che ho in mente.

Ma un autunno non è autunno senza una wishlist di libri. Data l’incertezza del periodo, preferisco muovermi a breve termine e segnare giusto qualche titolo per ottobre (chiedo scusa a Haruki Murakami, a John Williams e a tutti gli autori che ho illuso, recupereremo a novembre):

# Mentre morivo di William Faulkner.

# L’ultimo inverno di Rasputin di Dmitrij Miropol’skij.

# Nikolaj Gogol’ di Vladimir Nabokov.

# Cinque racconti di Ambrose Bierce.

# Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio di Remo Rapini.

# Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli.

# Codici & segreti di Simon Singh.

– Tra i fioretti non dimenticare di mettere il piumone al letto, o quest’autunno altro che sogni…!

Stavolta ha ragione, piumone al letto e scorta di tè e dolcetti alle mandorle. Ma soprattutto devo recuperare la mia instancabile clessidra da un’ora, che non concede una seconda possibilità neanche a se stessa.

Scrivi mi dice, scrivi mi canta, scrivi sussurra, scrivi bisbiglia ogni granello che pascoli.

E io mi arrendo.

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Ho perso il filo

31 lunedì Ago 2020

Posted by scribastonato in writing

≈ 25 commenti

Tag

aspirante scrittore, esordiente, estate, libri, racconti, reading, scrittura, writing

ciccio filo

7,30 a.m., ultima domenica d’agosto che a quest’ora non sembra domenica. Appuntamento-caffè con un’amica per la quale rinuncio volentieri al sonno. Cammino fino al Parco Urbano, mascherina sul naso a mitigare il freddo e braccia che rimpiangono un altro paio di maniche.

Intorno Sabbia rossa e deserto alla Litfiba, Vento d’estate come per Niccolò Fabi e alcune facce da mandillä, i tagliaborse di De André, a farmi accelerare.

Il mare abbaia, raffiche solleticano musi canini, la macchia mediterranea spumeggia nell’aria. In lontananza centri storici, cattedrali e ciminiere da archeologia industriale. Chiome verdi si agitano come sulla testa delle sciure a teatro. Il sole protegge ancora la nostra estate umana. Tre uomini che corrono e ridono, sparute macchine dagli occhi rarefatti, biciclette coi polpacci arrugginiti.

Tutti si ignorano, tutti mi ignorano. Va bene così, non mi serve niente.

Ma se avessi bisogno?

Pochi giorni senza scrittura e sono scivolata via dalla storia. Non è questione di concentrazione, quella si ritrova. Se trascuro un progetto subentra una vera mancanza di confidenza, i personaggi si fanno muti e non arrivano più soluzioni. Tento invano di recuperare quella trama che sembra passata di moda, fisso idee impalpabili e scartabello tra vecchi appunti a caccia di benevolenza.

Il pensiero pretende devozione e io l’ho trascurato per la parola. La parola uccide il pensiero, ripetevo anni fa a chi mi disturbava sul treno. In effetti per quattro giorni sono scesa in spiaggia e ho parlato, parlato, parlato coi vicini di ombrellone, sul bagnasciuga, in acqua, alle docce, al bar. È stato piacevole, ma ho perso il filo.

Una volta ho scritto un racconto, Le mogli del mare, finito in un’antologia benefica curata da Andrea Franco. Le mogli del mare, tra difetti e ingenuità, narra di una lunga amicizia tra donne. Protagonista è il mare, padrone che attrae e respinge, nutre e fa soffrire, ricompensa e pretende sacrifici. Quel mare che giocando strappa un bambino ai suoi affetti.

Ieri in spiaggia ho letto il romanzo di un esordiente (Sa funtana ‘e s’ùlumu di Antonio Carta), ho fatto i cruciverba, ho giocato a Dobble. Il mare frizzante e corposo invitava a fidarsi. Acqua alle caviglie e al ginocchio, mi vedevo parte di un tutto festoso. All’orizzonte una mano mi chiamava entusiasta, avanzavo cauta nella bagna fredda.

Un movimento brusco tra me e le due signore coi cappelli di paglia. La coda dell’occhio snobba una massa grigiastra tra i flutti: “Non ci sono squali, sarà un secchiello”. Rapido spostamento d’aria e il papà ha già in braccio il tesoro smarrito, il fagottino di due anni che si azzuffava con la schiumetta per sopravvivere. Riecheggia un gran primo vagito. Noi tre donne inutili ci avviciniamo serie, colpevoli, e con noi una coppia di tedeschi sbucata da chissà dove. “Il bambino era lì e non l’abbiamo visto”, “Mi dispiace, non me ne sono accorta”, sembrano frasi di circostanza. Il papà annuisce distante, stringe forte la sua tragedia mancata.

Padre e figlio costruiscono insieme un castello di sabbia, passeggiano lungo la costa e siedono sul lettino a mangiare focaccia, la più buona della loro vita.

Ho fissato a lungo quella piccola magia. Il magone non mi ha dato tregua.

Magone da “avrei potuto” e “se almeno avessi”, lo stesso provato prima di Natale a Nizza. Sprofondiamo nell’indifferenza nostro malgrado, spesso solo per distrazione. O almeno, a me capita così.

Ma a Nizza è stato diverso, il rimorso mi accompagna ancora.

Resoconto.

Sto viaggiando al posto del passeggero, ne approfitto per guardarmi intorno. Intermittenze natalizie rischiarano una Promenade ignara di quel che già cova in Cina; bilocali design da riviste di architettura, hotel e maison di lusso, alberghi e boutique, giacigli e botteghe per chi può e chi meno.

Raggiungiamo un quartiere di auto e roba e gente accatastata, cose cose e cose ammonticchiate per le strade e sui balconi, quasi fossero la misura del benessere. La quantità non rende ricchi, qui è evidente.

Le luci si fanno misere, il supermercato appiccicoso resta aperto. Rallentiamo per un’auto in manovra.

Gesti rapidi attirano il mio sguardo. Due ragazzi sgualciti prendono a calci e pugni un coetaneo: stomaco, denti, naso, gambe, non si salva nulla. Sussulto, stringo la maniglia, resto immobile. Clienti schivano il gruppo e attraversano la strada. Ripartiamo e non dico niente. Mi volto a spiare i due che scappano, la vittima si alza a stento. Cerco scuse per tornare ma non è facile orientarsi in questo labirinto.

Sensi unici e vicoli ciechi, pedoni e clacson all’impazzata, finalmente il supermercato. Non c’è segno del pestaggio, ma so di non aver sognato. Il ricordo va al più giovane, più pulito, più fortunato, al bersaglio, a quello con più spavento e meno rabbia.

Erano pusher che raddrizzavano un cliente strafottente? Compagni stufi di essere vessati da quel figlio di papà? Rapinatori seriali che terrorizzano il quartiere?

Mi spaventa comunque l’idea che mio figlio, che tuo figlio, sia assalito per strada senza che nessuno intervenga, quello stesso figlio che accarezziamo, coccoliamo e amiamo da sempre. Forse a Nizza mi sarei cacciata nei guai, ma sarei dovuta intervenire.

Nick Hornby mi suggerisce la lista delle cinque cose che avrei potuto fare e invece niente. Avrei potuto:

1 – aprire di scatto la portiera e urlare: “Aiuto!”, “Fermi!” o qualunque altra frase, anche “La nebbia agli irti colli”, pur di spaventare gli aggressori;

2 – suonare il clacson per attirare l’attenzione fino a farli scappare;

3 – chiamare la polizia;

4 – scendere a separarli (no, questa non è plausibile);

5 – aiutare la vittima rimasta sola.

Non so chi sia né come stia quel ragazzo, ma continuerò ad augurargli ogni bene.

Tornando a oggi…

– Oggi è domenica, senti che campane.

– Ma che campane e campane, pensa a pulire il basilico così facciamo il pesto.

– Che noia! Va bene, ora vado. E tu pensa a buttare giù una traccia, che è fine agosto e non hai niente di decente da scrivere.

– Non è vero che non ho niente: ho qualche personaggio da caratterizzare, alcune psicologie che sconfinano nel patologico, due o tre situazioni carine per i protagonisti (in realtà carine per me, loro si divertiranno meno).

– In pratica hai due o tre sfigati dai tratti nevrotici ai quali ne combinerai di tutti i colori.

– Può darsi ma tu sbrigati in cucina, che di questo passo si fa notte e la domenica finisce.

In effetti devo essermi persa qualcosa, oggi è già lunedì…

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Sognando Hitchcock

23 domenica Ago 2020

Posted by scribastonato in Reveries

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aspiranti scrittori, disciplina, esordiente, gatti, Hitchcock, immagina, libri, racconti, scrittura, writing

cortile bis

Abito da poco in questo palazzo tra i palazzi, uno scorcio di mare pagato a suon di privacy e tafferugli h24 giù al supermercato.

Ma sono felice qui, mi sento a casa.

Stamattina scoppiettano i tuoni. Cauti, tenaci, sono già pioggia per il meteo online. Resterei volentieri a letto, se non premessero le commissioni.

Fa un odore diverso il mare, quando tira burrasca. Sa di case estive in chiusura, di sole reso innocuo, di autoctoni che fanno capolino, di galletti segnatempo alla Mary Poppins, di saluti a lungo termine e di zanzare spiaccicate ai muri. È un’aria carica di ultimi gelati, di palme ancheggianti, di valigie panciute, di compiti delle vacanze e progetti a maniche lunghe, di cancelleria e diari da annusare.

Rivedo la vecchia sala giochi di Chiavari, il veggente meccanico che prediceva il futuro prima di ogni partenza: due spiccioli nella feritoia, la mano offerta per pochi secondi, scricchiolii tipo estrazione del lotto e poi usciva l’oracolo, un foglietto abbastanza criptico da accontentare chiunque.

La fine dell’estate rievoca il commiato dalla basilica dei Fieschi, la sua pietra massiccia e memorabile che isola dalle interferenze e rende pensiero il mondo.

La fine di tante estati portava scadenze e copioni da ultimare, studi di doppiaggio in riapertura, piccoli vantaggi sulla programmazione e fluenti ritorni in città.

Oggi è lontano l’autunno, i tuoni cederanno a un nuovo sole infuriato e nessuno sa, quest’anno, se ricomincerà davvero, il nostro settembre operoso.

Non mi sono ancora familiari le tante persone che abitano nel casermone davanti.

Fisso un vecchio che vedrei vestito come tutti i vecchi, camiciola chiara con occhiali da taschino o forse polo, magari a righe e bisunta. Porta canuto una canottiera rossa, spalle e muscoli lo camuffano da giovane. Nove del mattino, sul balconetto al terzo piano ritira, allarga, piega e impila panni asciutti. Prende dalla borsa frigo due mollette per volta e stende i capi appena lavati, tira giù le tende da esterno e sparisce veloce dietro la zanzariera. Scapolo, divorziato o vedovo, saranno anni che si aggiusta da solo.

Al quarto piano vivono una ragazza e il compagno: carina e rassicurante lei, sensuale e consapevole lui. Il balcone fa angolo, si sporgono dalla mia parte soprattutto per allargare, ancora in costume, gli asciugamani da mare sulla ringhiera. Lui dimena le ciocche quasi a compiacere un pubblico. Lei fa gesti asciutti e nervosi.

La signora del secondo piano lato mare ha un grande terrazzo e vasi da fare invidia a un orto botanico. Sotto il tendone a righe verdi raccoglie statuine e girandole, anfore e ninnoli accuditi come creature. Le tapparelle restano basse, la signora dai riccioli daino tarda a mostrarsi. Eppure è facile immaginarla a riordinare pulire lavare preparare accarezzare quella casa che rappresenta la sua vita.

Il palazzo di fronte è così grande da avere due ingressi separati. Il vecchio col fisicaccio e i due fidanzatini vivono lato monti, forse neanche conoscono la donna daino, se non di vista.

Peccato.

Si potrebbero organizzare appuntamenti alla cieca per condomini soli.

Che pena l’anziano che abita sopra l’orto botanico, non l’avevo mai notato: lui sì che ha una canottiera da ospizio, di quelle bianche e logore a costine. Fissa malinconico il mare, sugli occhi i ciuffi sopravvissuti al lockdown.

– Guarda bene: quel tizio non è solo.

Gli si avvicina una giovane caraibica, una statua a chioma libera. Risate rimbombano tra il cemento: la ragazza civetta in posizioni meno che convenienti; l’omuncolo a costine, concreto, arraffa più che può. Se è la badante, non lo rimarrà a lungo.

Sto facendo colazione, mela biscotti e caffè.

Ciccio litiga col barboncino al di là del vetro divisorio, non scavalca perché sa che lo guardo. Ciccina lo ignora. Alcuni dirimpettai si sono lamentati per il continuo abbaiare dei cani nella nostra palazzina. Mi sento responsabile, i Cicci hanno risvegliato l’ugola di tre o quattro cagnetti da appartamento.

– Cosa te ne frega?

– In effetti i miei gatti non abbaiano. E poi a me non dà fastidio la voce degli animali, fa natura.

Adesso ho i personaggi da plasmare, mancano le risposte.

Questa domenica, chi di loro lavorerà?

Chi passerà una splendida giornata?

Chi farà una scoperta sconvolgente?

Chi ricorderà questi momenti per tutta la vita?

Chi si riterrà il più soddisfatto?

– Vuoi davvero perdere tempo dietro ai tizi che abitano là?

– Non si perde mai tempo, a fantasticare. E poi… è così che nascono le avventure, no?

Hitchcock insegna.

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Sì, viaggiare

16 domenica Ago 2020

Posted by scribastonato in Travelling

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esordiente, libri, racconti, romanzi, scrittura, scrivere, Travel, writing

casa neve

Ferragosto. Due passi in maschera a scantonare la folla ed è già noia. Ringrazio di non avere sedici anni (i nostri ragazzi sono da medaglia d’oro), non sarei sopravvissuta alla reclusione in famiglia, meglio pescare la carta Imprevisti. O forse mi sarei arresa – pur preferendo un ergastolo a Marassi – e mi sarei riavvolta intorno a libri e musica. Avrei fantasticato di posti così lontani che manco Jack London ne Il vagabondo delle stelle.

Del resto Salgari non viaggiò mai. Non, almeno, come ci si aspetterebbe dai suoi scritti. Idem per Jules Verne. Poco importa se i loro romanzi raccontano di viaggi memorabili verso terre a metà tra il fantastico e la geografia.

Prima di diventare scrittore, Kent Haruf ha svolto diversi lavori e ha viaggiato un bel po’. Poi si è fermato e ha inventato la cittadina di  Holt, ispirata a tanto Colorado e soprattutto a Yuma.

Neanche Stephen King ha fatto chissà quanta strada, se pensiamo a tutto il Maine che c’è nei suoi libri.

Il romanzo che ho scritto è ambientato in un paese immaginario – d’ispirazione sarda – collocato su un’isola vulcanica a vocazione fortemente sismica. L’ispirazione sarda è evidente nella connotazione realistico-rurale e nell’atmosfera magico-arcaica del paese, ma l’isola NON è la Sardegna.

In una scheda di valutazione ho letto: “Nella sinossi afferma d’ispirarsi alla Sardegna, eppure la Sardegna non è sismica né vulcanica”. Davvero? Me lo giurate?!

Va bene, mi sono spiegata male o sono stata fraintesa. Si cambia. Scriverò un racconto ispirato a un bel niente, o meglio, a niente che io conosca o che possa conoscere chi leggerà la sinossi. Sceglierò un’atmosfera inusuale e ne respirerò l’aria su Google Maps o Wikipedia.

Per il mio esperimento, partirò da una zona sperduta della Russia.

Digito “Russia” su Google Maps. Zoom fino a ingigantire la parola Surinda (carattere occidentale e cirillico, da qui in avanti scritto con una”g” in più). Alle 4.03 clima parzialmente nuvoloso, con una temperatura di 16 gradi. L’omino giallo dello Street View non collabora, il satellite offre marrone e verde per chissà quanti chilometri, poi un coagulo di tetti rossi blu verdi, forse capannoni, simili alle macchine di un concessionario di usato. Quest’informazione tornerà utile.

A poca distanza scorre un fiume che sulla carta sembra ben lungo, il Reka (che significa appunto fiume) Suringda (da qualche parte a nord c’è anche un lago Suringda, uno dei 19338 laghi della Russia). Risalgo fino alla sorgente senza incrociare una casa. Mi arrendo all’approfondimento online: pochi siti bonariamente tradotti dal russo m’informano che sono nella taiga, in una terra foraggera adibita al pascolo stagionale delle renne domestiche. Non male un racconto sulla vita del giovane Irkuk, il pastore di Suringda che abbandona sulla riva le renne di famiglia per lavorare come impiegato in un concessionario di trattori stradali.

Il fiume biforca più e più volte: resto a sinistra per mantenere l’orientamento. Quando l’acqua si fa meno chiassosa, compare un piccolo, curioso centro urbano. Street View dorme ancora ma le mappe indicano un albergo, il Podkova, nel territorio di Krasnojarsk. Quattro recensioni miserrime su Tripadvisor e zero foto, meglio lasciar perdere. Seguo il Suringda finché non s’immette nel Reka Nera.

Costeggio questo nuovo fiume lungo miriadi di anse imbiancate, fino al paese di Tokma (casupole sbilenche e staccionate a protezione di alberi da Natale). Più avanti c’è una scuolina verde che mi fa venire in mente il film Non uno di meno del cinese Zhang Yimou.

Proseguo lungo il fiume Nera (anche chiamato Hera, giusto per non confondere le idee), ghiacciato, pixelato e attorcigliato da fare invidia all’intestino tenue. Alla foce sorge Ust’Nera – 8000 abitanti dispersi tra le nebbie pungenti – definita da Wikipedia una delle cittadine più fredde al mondo, con picchi di – 60°C. Il museo mantiene vivo il ricordo dei gulag che hanno infamato la regione. Trovo un posto per dormire, il Gostevoy Dom ha perfino cucina a gas e lavatrice. Una sola domanda: cosa viene a fare uno dei miei personaggi qui a Ust’Nera?

– Scappa dai debitori?

– Di solito ci si nasconde nei posti caldi.

– Ha una malattia rara?

– Quale morbo costringerebbe un uomo a vivere fra i ghiacci? Beh, a meno che… il suo corpo non vada in decomposizione. Ma certo! Allora sì che si troverebbe bene a -60°C!

– Un miliardario che per evitare la putrefazione si trasferisce a Ust’Nera.

– Potrebbe essere un’idea ma… sono le 14,30 e quel rossiccio là in fondo preannuncia il tramonto. Sarà meglio lasciare la Siberia. Di materiale per scrivere ne ho abbastanza, se considero anche quel fatterello misterioso che ha stuzzicato scrittori e scienziati…

– Di cosa parli?

– Non te lo dico, così leggerai i miei racconti.

– Sogna, Giovannina Perdigiorno, sogna… intanto con la scusa del ferragosto non hai scritto niente.

– Ora basta, grillaccio del malaugurio… va’ a farti un giro con gli stivali delle sette leghe, va’!

E noi continuiamo il viaggio. La prossima volta andremo a…

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Cose pallose

10 lunedì Ago 2020

Posted by scribastonato in writing

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aspirante scrittore, classici, esordiente, Gregory Peck, lettura, libri, scrittura

lauro
Per me Lauro non ha il tallone fragile

 

Ho rivisto Vacanze Romane. Lei stupenda manco a dirlo, lui affascinante alla maniera dei tempi andati, una faccia da galantuomo rigata dal sorriso più malandrino.

Gregory Peck mi ricorda mio nonno nelle foto sbiadite del dopoguerra, sarà la fossetta sul mento ma a guardarlo sento quasi il profumo della brillantina Linetti.

Tutti dovrebbero avere un nonno Giuse, nella vita. Un ometto scappato alla guerra con trucchetti e sotterfugi, incapace di eroismi ma sempre pronto a far passare prima i fragili. Qualche anno di scuola da bambino, poco più che un talentucolo per le arti e la pittura, una piccola famiglia mantenuta come un gioiello camallando casse al porto. E tanto amore, tanta lettura, tanta timida curiosità a conservarlo troppo giovane per gli anni che gli piombavano addosso.

Trascorrevo il pomeriggio dai miei nonni, focaccia prosciutto cotto con maionese e libri. Avevano rinunciato al loro appartamento col pavimento in graniglia e i mobili antichi per stare vicino a figlia e nipoti: bilocale che dava sulla stazione e arredamento moderno. Quanto erano felici.

Mio nonno lasciava in bella vista, nella libreria sopra il divano, gli autori che sperava leggessi: Jack London, Charles Dickens, Hugo, qualche Zola, Silone, Gogol’, Hemingway e tanti altri.

Troppo in alto per stuzzicare c’erano i volumi più disgraziati, i classici che l’avevano annoiato come Peter Pan o Gian Burrasca, e i romanzi faticosetti, come Il Gattopardo e Cent’anni di solitudine o I demoni.

Ma.

Ma in una colonna della parete attrezzata, tra la finestra e la collezione di tazze da caffè della nonna, stava lasciva la vetrinetta dei libri proibiti: Nabokov, Wilde, Maupassant, Stendhal, Miller, Moravia, Boccaccio, Flaubert e compagni, autori mandati al confino con la sola colpa di aver scritto testi non ancora adatti alla mia età, o forse non del tutto consoni all’educazione di una signorina.

Aspettavo che il nonno Giuse uscisse a giocare a bocce con gli amici, prelevavo la chiave dal posacenere stile Taormina e trafugavo un libro alla volta: con che gusto leggevo tutta la notte sotto le coperte, la torcia tremolante fra le mani. Capivo solo metà delle parole scritte, ma restava un gran godimento.

Sospetto che mio nonno sapesse, anzi lo facesse apposta se anni dopo, col sorriso alla Gregory Peck – lo stesso di quando vedeva le tahitiane di Gaugin –  disse: “Così quei romanzi ti sembravano ancora più belli, no?”

Provai quasi la stessa soddisfazione anni dopo, dalle suore. Nelle ore tra la chiusura del doposcuola e l’arrivo di mia mamma lavoratrice indefessa ottenni l’autorizzazione – o forse mi arrogai il diritto – di accedere alla libreria dell’Istituto: seduta a terra con tanto di uniforme blu e calze immacolate, divorai prima gli scrittori russi, poi i francesi, due o tre spagnoli e infine gli inglesi, i tedeschi e tanti italiani. Unica lacuna gli americani, che restano tutt’oggi il mio tallone di Achille.

Non ho mai smesso di leggere. Sul treno tra Genova Brignole e Bolzaneto, credo che in molti ricordino ancora “quella coi libroni in mano”. All’epoca fasciavo le copertine per nascondere i titoli, mi sentivo anacronistica a leggere Proust e Cechov, o forse temevo il giudizio di altri. Avevo faticato anni a costruirmi quell’aria da imbecille compagnona e non volevo perderla passando per secchiona che se la tira.

Ancora oggi, se nel vagone sono l’unica col cartaceo in mezzo a tanta roba tecnologica, mi arrendo a un audiolibro in cuffia.

I libri – come la musica – mi hanno salvato la vita. Non suono perché la musica scioglie ogni mio filtro in pianto, e dopo mezzanotte mi trasforma in Gremlin  (“Ma questa – come direbbero in Irma la Dolce –  è un’altra storia”).

Vorrei scrivere. O meglio, quando posso scrivo. Mi dispiace solo che i miei testi non riescano a farsi conoscere. D’altra parte, quando vado al cinema di solito la sala è più o meno deserta. E se leggo un romanzo contemporaneo, scopro che siamo in pochi ad apprezzarlo. Come dice mia sorella, probabilmente ho interessi di nicchia. Oppure…

– Hai gusti pallosi!

– Grazie.

Stavolta ha ragione, forse leggo e scrivo cose pallose.

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