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aspirante scrittore, Bulgaria, esordiente, Pessoa, poesia, romanzo, scrittura, scrivere, Tolstoj, Travelling, viaggiare, viaggio, writing, Yasna

La settimana scorsa ho conosciuto una coppia insolita. Nelle loro torrette arroccate su un’altura impervia niente tv né social, internet solo per servizio e cibo a chilometri dieci; quei due non fumano non eccedono si divertono q.b., leggono suonano e padroneggiano cinque lingue l’uno.
Lui, geologo girovago per professione, ha diretto gestito orientato e incaricato fino al logoramento; ora obbedisce a lei sola, a un ingegnere di testa e di talento che l’ha investito della gerenza domestica.
Smarrita in un distanziamento boschivo reso surreale da sedili diffusi, tra un bignè e una slerfa de fugassa ho apprezzato gli spunti al femminile sulla sicurezza nei cantieri e le avventure fiabesche del geologo ammaliatore.
Si sofferma sulla Georgia lui, intervallandosi con domande di cultura generica che pungerebbero, se non intercedesse la compagna suggeritrice. Georgia e tradizioni che a me, non glielo dico, ricordano la Sardegna di qualche decennio fa; Georgia tra Caucaso e Mar Nero, dove le donne comandano purché non si sappia in giro; Georgia e innovazione, spiega, senza la paura nostrana d’ipotecare il tempo.
Ascolto estasiata finché non si blocca a redarguire me, proprio me che non do adito:
– Vorrei, vorrei non fai che ripetere, vorresti andare ovunque. Perché non scegli un posto e parti?
Sterminati attimi d’angoscia e bofonchio:
– Non tutti hanno la fortuna di viaggiare per lavoro, anche sognare è un po’ partire.
Da sognare in poi non dev’essersi capito un granché, tanto ho bisbigliato.
Ma è bastato, lui scalpita pronto al galoppo. Lei gli stringe la cavezza:
– Sono d’accordo, desiderare ci avvicina a possedere. Tra figli e impegni non è facile spostarsi. Quando sarai più libera, recupererai.
Amen. Non l’ha convinto, se si è accanito sul pecorino ai gelsi mulinando occhi ancora accesi. A fauci di nuovo vuote, ha ripreso la carica:
– Se potessi partire oggi, dove andresti?
– Te l’ho detto, sono tanti i posti che prima o poi…
– Scegline uno e bon, troppi progetti sono zero successi.
Credo gli sia arrivato un calcio sotto il tavolo, e lei ha chiuso il discorso:
– Non lo dice certo a uno zotico come te, – mi ha fatto l’occhiolino e ha cambiato argomento.
Un gran bel pomeriggio senza altri intoppi, ma due pensieri hanno preso a rimbalzare nel flipper della mia testa:
1 – Troppi progetti sono zero successi.
Forse il geologo ha ragione, anche per scrivere devo eliminare il resto. Ha battuto e ribattuto sulla programmazione a lungo termine: scegli un progetto, guardalo nascere ma immaginalo tra cinque anni, non lesinare sul tempo. Se poi non è destino i giorni e le settimane si contrarranno da sé, si dilateranno, spariranno. Tu intanto osa. E resta fedele a quella sola idea, che gli altri corrano pure dietro a mille gonnelle.
2 – Se potessi partire oggi, dove andresti?
Cercherei un posto al quale appartenere. Per sentirmi a casa, tra chi prova e pensa come me, senza brama di scappare ancora, la finestra aperta a respirare un cielo che accomuna. Invece niente mura a proteggermi, nessun paese si carica della mia pena; quando cade il buio, non c’è colonia umana a comprendermi.
Ricordo una frase di Pessoa, o forse non la ricordo così bene se non esce neppure su internet. Dovrei controllare i volumi nella libreria, scaffale in alto a destra; no, lascio perdere. La frase recita: “Vorrei essere ogni uomo in ogni luogo”. Ecco dove andrei, oggi: ovunque e nei panni di chiunque. Infiniti modi di essere e di vivere.
Ma resto sempre a qualche passo di distanza, e l’altro, qualunque altro, lo percepisce.
Lo so, sto barando, il geologo peregrino non intendeva questo.
Parto per un viaggio, uno solo. Non so scegliere. Mi affido per la prima volta a Google Earth, pare sia meglio di Maps. Schiaccio a caso, un mappamondo 3d piroetta sul monitor. Clicco ancora e la Terra smette di girare, due clic e s’ingrandisce. Che figata, senso orario, antiorario, su e giù, again and again.
Mi do tre possibilità, due le scarto e una è mia. Sembra la Ruota della Fortuna, chissà dove finirò. Zoom e si legge qualche nome, villaggi dal doppio carattere occidentale e arabo. Allargo allargo allargo, sono in Ciad: Zouar, Iriba, Adré, Kaouda, piccoli agglomerati nel deserto di case basse e recintate; ancora giù per altipiani e savane, Mongo, Abou Deia, Sarh, Bokoro, Mao fino al lago Ciad, quindi raggiungo la capitale N’Djamena, sul fiume Chari. Neanche a N’Djamena funziona lo Street View, qualche foto di una città recente e polverosa, cambio aria.
Giro ancora la ruota, giro giro e poi fermo il mondo. Firenze?! Non mi sembra il caso, la conosco abbastanza. Ultima chance: gioco la carta ”mi sento fortunato”, Google Earth sceglierà per me.
Vado, vado… ma come, in Bulgaria?! Sognavo la Norvegia, Berlino, Tokyo!
– E perché non ci sei andata?
– Non t’impicciare, confidavo nella sorte. Però in effetti… perché non ho scelto io? Sempre la solita storia: lascio che gli eventi seguano il loro corso e poi mi lamento; forse se avessi…
– Comunque in Bulgaria si mangia bene. Ho visto una trasmissione, fanno un kebab buono buono e gli involtini col formaggio sono invitanti, e poi la polenta…
– Va bene dai, vediamola questa Bulgaria. Fossi almeno capitata nella bella Sofia, o a Plovdiv, tra moschee e anfiteatri romani. Niente, sono a Svilengrad, giù giù al confine con Grecia e Turchia, in pratica un casino. È un posto tristemente noto perché da qui passano i profughi siriani che risalgono dalla Turchia, vengono raccolti col loro fardello, tanto dolore e poca fiducia, nei centri di smistamento in zona. Faccio un giro, ricordo immagini televisive, ho un groppo in gola, piango.
Se le scritte in alfabeto cirillico inquietano, lo STOP rivela cartelli stradali leggibili, procedo più spavalda. Cambio quartiere, supero una scuola, raggiungo uno dei peggiori hinterland mai visti – e dire che io nasco come randagio di periferia, – degrado che sgretola prefabbricati, cortine e radar parabolici. Ma a incupire è la ruggine che cola, ruggine sorella di miseria e incuria. Un cane fulvo fissa l’obiettivo Google, supplica portatemi via. Gli alberi sono secchi e non c’entra l’autunno. Mancano asfalto, pattumiere e auto.
Esco miserere dal sobborgo, cuore sospeso e silenzio scialbo, saluto con conforto un minimarket. Earth non va oltre, dietrofront, di nuovo lo scempio. Rivedo ruggine, muri scorticati, balconi in gabbia, sbarre divelte. Frontiera di fatto, ricomincia l’asfalto con aiuole e villette, cancellate e giardini. Tinte vive, perfino il cielo – bontà di Google – ha cambiato umore. Nel parco giochi siepi potate, lanterne a boccia, bidoni gialli, plotoni di panchine. Tutto è pulito e riluce, viene il magone se penso a dietro l’angolo.
Dov’è il sindaco, che gliene dico quattro?
Costeggio la Mariza che scorre algida, chiedo a un tizio dal buon inglese: benvenuta a Svilengrad, visita il Ponte Vecchio. Annuisco finché non mi indica il municipio.
Eccolo, coi lampioncini che manco il Café de Paris a Montecarlo, solo che l’edificio è basso. Il sindaco mi riceve quando minaccio rimostranze al console, ma non capisce il mio parlato – finge? – e mi liquida con due bazzecole.
Zdravej ciao, Kolko struva? quanto costa? – è quanto imparo in poche ore.
M’intriga questa Bulgaria, ne percepisco il richiamo. Raggiungo il Mar Nero, distretto di Burgas, è qui che intendo muovermi.
I personaggi prendono voce, si tratteggiano prudenti i volti. Le vie di Nesebar fanno un po’ vacanza, a Tsarevo dormo sulla spiaggia. Ora anch’io ho un posto che mi vuole, è quel villaggio che blandì Tolstoj legando il nome allo scrittore russo, merita indagini. Mi fermerò per qualche mese o anno, resterò ospite di Varvara e Pavel.
Solo lì vorrei andare, risponderei oggi al geologo.
– Se va bene quello se n’è già sparito in Adzerbaijan.
– Buon per lui, avremo tanto da raccontarci al rientro.
Intanto parto per Yasna Polyana, e stavolta viaggio con Tolstoj.