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Ho letto un post che mi ha toccato il fondo,

un thread audace e senza freni intorno,

metteva il cosa, di per sé già ardito,

in una forma che non regge filtri.

Ricordo il modo in cui scrivevo un tempo,

cui mi abbandono s’entra in me il sonoro,

musa potente, musica m’assorbe,

mi sbrana l’anima e si risputa fuori.

Ho così il pezzo, il brano o il testo pronto,

ma perdo spigoli del mio equilibrio dentro.

Sia festa prodiga di luci e sguardi liberi,

se canta il diavolo finisce a stupro e vomito.

L’amore tenero, sessuato o forse impavido,

si scopre torbido, quando a calare è il ritmo.

Per questo spesso mi tengo alla larga dalla musica, da certa musica che risveglia la sintassi peggiore di me. Ma non è solo una questione di forma. A volte a spaventarmi è il viaggio che mi aspetta, il posto che visiterò per scrivere, il cammino da percorrere.

Finché uno entra in casa propria, magari nell’appartamento in cui abitava felice da piccolo, è un conto. Ma affrontare spauracchi di un passato che genera bestioni su bestioni richiede coraggio. E la musica non sempre viaggia dalla parte dell’eroe, non sai in anticipo quali ricordi o esperienze amplificherà, potenzia ma ha effetti collaterali che uccidono.

Ci sono epoche che fanno paura e posti che feriscono, non serve musica ad amplificare. Il kinderheim dove trascorrevo l’infanzia estiva, certe serate a casa dei miei, il cimitero delle ampolle umane dove Astolfo cercherebbe di nuovo il senno altrui.

Per scrivere bisogna osare, penetrare certi edifici, esplorarli, allontanare mani e braccia da sé per frugare ciò che non si vorrebbe neppure sfiorare.

La mattina, quando esco, qualcuno mi chiede:

– Dove vai oggi?

Nell’appartamento di mio nonno, al parco del Valentino, nella biblioteca della vecchia scuola, al castello di Fenis, a lezione dal prof di fisica del liceo, a trovare il parroco di F., nella casa del boia, la risposta cambia a seconda di quel che voglio immaginare.

Prendo l’auto, accompagno chi va a scuola e mi dirigo verso l’ufficetto che mi aspetta. So quasi sempre cosa scriverò quel giorno, soprattutto se mi sto dedicando a una storia lunga. A volte ascolto una canzone preparatoria, qualcosa che porti le emozioni dove devono andare senza domarmi l’anima. Spengo la musica – non interrompo mai un pezzo, – pago il parcheggio se non c’è gratuito, lascio il tagliandino sul cruscotto, apro il portone dalla serratura difettosa e mi ritrovo nel loft zitto e in penombra. Sveglio luci, computer, macchinetta del caffè,  sposto sedie, prendo penne fogli dizionari appunti e comincio. Entro dove so, i miei occhi guardano intorno ma non ho solo un visore a trecentossessantagradi, anche le mie braccia sono lì, le mie gambe, io stessa sono presente. E vedo quello che è successo, spesso non proprio come è successo, e sto bene, sto male, vorrei ridere piangere scappare ma resto lì, a osservare quelle scene che presto potrò raccontare. Perché senza musica posso anche tornare indietro.

Per anni la mia scrittura non ha avuto filtri, è stata incondizionata e in balìa di quel lato selvaggio, notturno, famelico e cannibale che spaventa tanto, prima me e poi tutti gli altri. Mi svegliavo la notte in sovraccarico di emozioni, sono piena di quei testi febbricitanti. Poi ho spento la musica per una decade. Quando l’ho riaccesa avevo addosso come un sigillo invisibile, un piccolo dispositivo che controllo a mio piacere con una certa facilità. E la mia scrittura si è fatta misurata. Per qualcuno è anche troppo controllata, lo sforzo traspare.

Vivo lo stesso, sento, immagino, soffro e scrivo, ma respiro la notte anche quando non dormo. Ogni tanto devo sciogliere il sigillo, decido io.

Ho salvato me a discapito della scrittura. Ho rinunciato a distruggermi, a diventare musica, a carezzare la follia, a ingollare eccessi, anche se il mio spirito consumato si sente ormai vecchio. So che il mio demone feroce resta in agguato, però ho scelto di darmi tregua.

La mia scrittura non diventerà mai quella che sarebbe stata se mi fossi immolata alla creatività, ma meglio non rischiare: a volte la natura si beffa di noi, instilla in un vago scribacchino l’urgenza del Sommo Vate.

Leggo i quaderni passati, erano più forti; e non è per l’età o lo scorrere del tempo, a sedare è proprio quel sigillo che fatico sempre meno a sopportare, purtroppo.

Ripenso a un manga (e successivo anime) di cui ho curato l’edizione italiana per Dynit, Saiyuki di Kazuya Minekura. Basato sul romanzo cinese Viaggio in Occidente – ispirato alla leggenda dello scimmiotto di pietra Sun Wukong (si pensi a Dragonball, al più recente The new legends of Monkey di Netflix e ai vari adattamenti per videogiochi) – il fumetto parla del viaggio verso ovest compiuto da quattro personaggi (meravigliosi!) per cercare i sacri sutra che serviranno a fermare la resurrezione del re dei demoni.

Tra questi viaggiatori c’è anche Son Goku, il più giovane del gruppo, la trasfigurazione dello scimmiotto immortale rimasto imprigionato per cinquecento anni sul monte Gogyo (il monte dei Cinque Elementi) e poi liberato. Son Goku porta sul capo un diadema, un dispositivo di controllo, e quando lo perde si trasforma nel Seiten Taisei, “il grande santo pari al cielo”, una creatura invincibile e animalesca che libera i suoi poteri demoniaci perdendo il controllo di se stesso.

Ecco, la musica mi trasforma nel Seiten Taisei.

E quando il grigio si spiccica dalla pianura e la foschia evapora, lontana la cima del Monviso si fa inarrivabile, una montagna sacra spezzata dalle nubi, la tana di creature potenti, divinità assorte e demoni rabbiosi, e magari dello stesso Goku.

Ho la sensazione che se togliessi il sigillo, l’umanità mi relegherebbe lassù per cinquecento anni e oltre, e nella notte sarebbe terribile convivere coi miei mostri, più spaventosi dei lupi che popolano queste zone.

Ma per fortuna controllo la musica e domino la scrittura. Quasi sempre.

Scritto da Scribastonato il 27/11/2020