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Chi ha abbastanza disciplina per scrivere un romanzo?

Ho smesso di lavorare qualche anno fa, è stato come strapparsi un arto: di colpo sono passata da quindici e più ore giornaliere d’impegno a zero totale, telefoni muti e nessuno a spremermi. Poche preoccupazioni, neanche un goccio di adrenalina. Amavo profondamente il mio lavoro, non capita a tutti di essere pagati per ciò che si sa fare davvero.

Mi sono messa a scrivere per conto mio: per un bisogno impellente, per i personaggi che urlavano in testa, per le storie che mi rapivano alla realtà, blablabla etcetc.

Ho buttato giù la traccia (una luuunga traccia), incastrato vicende e persone e via. Ho capito subito che non sarebbe stato come scrivere un racconto, per quanto lungo. Il tempo passava, le pagine (dritte o storte) aumentavano senza mostrare il fondo.

Altro che scrittori maledetti, altro che alcol e genio & sregolatezza: ho scoperto che la scrittura è un lavoro da artigiano, quasi da certosino, testa a cuocere e pedalare.

Tante volte sono stata sul punto di abbandonare. Poi ho raggiunto la metà, e il punto dopo la metà, e una parte di me, vedendomi esausta, è andata in giro (soprattutto per il web) a cercare risorse: e allora avanti coi siti di crescita personale e i gruppi di discussione, aforismi motivazionali a gogo e Ted Talk su procrastinazione e disciplina e forza di volontà; sotto con le tecniche del pomodoro, del peperone, con le sfide da quindici minuti e da novanta giorni. Ma la fine sembrava ancora lontana.

Se scrivi un romanzo non devi rendere conto a nessuno, non sei stritolato dalle scadenze, dai clienti né dai datori di lavoro, ed è quindi più facile indulgere al riposo. Soprattutto se rallentare ti dà una gratificazione immediata: una bella giornata con chi ami, una vacanza improvvisata, qualche ora di shopping, tempo per te e le tue passioni.

E allora perché ostinarsi al sacrificio, perché scrivere parole che a rileggerle fanno schifo?

Poi ho trovato il mio metodo, quello stesso che mi ha trascinato per i capelli fino alla meta: senza rinunciare alle diverse tecniche per sviluppare l’autodisciplina, ho deciso di assegnarmi uno stipendio. Esatto, di pagarmi. Perché se non ci credo io, chi ci crede?

Ho preso un barattolo molto grande, tipo quelli delle drogherie di una volta per le caramelle di eucalipto o le liquirizie e le violette. Ho attaccato su una bella etichetta a fiori: STIPENDIO PER IL ROMANZO – 0,01 centesimi a parola (il compenso per la revisione era inferiore).

Da quel momento ho scritto almeno duemila parole al giorno, e ogni sera ho versato lo stipendio nel barattolo. Non ricordo come io abbia speso i soldi così guadagnati, probabilmente ho pagato il bollo auto e poco altro, però l’idea che qualcuno credesse in me tanto da investire denaro è servita eccome.

Adesso vorrei scrivere un secondo romanzo (ancora per qualche anno non potrò lavorare, perciò ne approfitto). Prima del lockdown ho tirato giù una traccia (che non mi convince) e ho affittato una scrivania in coworking.

So che sarà più difficile, la delusione del primo romanzo si fa ancora sentire, ma cercherò di andare avanti col paraocchi, col paraorecchie, con l’armatura.

Ogni suggerimento è ben accetto.

 

– Vattene a nanna, che è tardi.

– Non intendevo ques… va bene, buonanotte.